Tozzo: una nuova stagione referendaria, ne beneficerà l’Italia intera

Politica e Primo piano

Pubblicato su Huffington Post

di David Tozzo

Prima ancora che sul lavoro, la Repubblica fu fondata sul referendum istituzionale del 2 e 3 giugno 1946. Curioso osservare come i componenti dell’Assemblea Costituente, eletti contestualmente i medesimi giorni, resistettero all’introduzione dell’istituto referendario nella Costituzione che furono chiamati a redigere. Curioso ma non così contraddittorio, dal loro punto di vista, dato che in una loro prospettiva il potere affidato ai referendum andava a costituire una potenziale minaccia di deminutio del loro di eletti a deliberare.

Ci vollero tra le altre tutta l’insistenza e l’autorità del Presidente della Costituente, Umberto Terracini, per far sì che il referendum, pur nelle sole forme abrogativo e costituzionale, venisse inserito nel testo finale. Arrivò addirittura, Terracini, a proporre che un numero di cittadini proporzionato al corpo elettorale potesse sciogliere le Camere, in un ribaltamento paradossale della prassi che assegna questo potere al presidente della Repubblica, in uno sforzo di “ribaltamento della piramide”, di check and balance democraticamente diffuso dal basso e in orizzontale di tutela e compartecipazione democratica alla cosa pubblica del pubblico. Questo non passò, i referendum costituzionale e abrogativo sì.

Ciononostante, come per altre istituzioni massime del nostro Paese, per esempio la Corte Costituzionale che vide attuazione e avviamento solo sette anni dopo l’entrata in vigore della Carta, nel 1955, il referendum abrogativo dovette attendere sino al 1970 con la legge 352 del 25 maggio. In un continuato gioco di contraddizioni e paradossi, fu la Democrazia Cristiana a spingere per tale legge nel tentativo di fare riuscire dalla finestra ciò che era stato fatto entrare a pugni sbattuti sulla porta di Montecitorio dalla maggioranza neanche così silenziosa del Paese con la legge sul divorzio. Il 12 e 13 maggio del 1974 si tenne quindi il referendum che confermò l’istituto del divorzio, sancendo la piena vigenza di quello referendario nonché, con buona pace dei democristiani più reazionari, il fatto che i cittadini son spesso un passo più avanti dei propri delegati a decidere.

Da allora il referendum ha vissuto sostanzialmente due ventenni: dal 1974 al 1995 tutti i referendum abrogativi proposti, con la sola eccezione di quelli del ’90 su caccia e agricoltura, hanno raggiunto il quorum del 50%+1 degli aventi diritto al voto. Dal 1997 al 2016, con la sola nobile eccezione dei referendum su acqua pubblica, nucleare e legittimi impedimento, non hanno raggiunto il quorum necessario ad essere validi.

Avvicinandoci progressivamente al tempo presente, la ragione in radice della piega negativa presa dall’istituto referendario in Italia non è tanto da ravvisarsi in una generale stanchezza da referendum, quanto da un più generale e globale calo di partecipazione alle consultazioni elettorali di qualsiasi tipo grosso modo in qualsiasi angolo del mondo, quantomeno tendenzialmente.

Si apre però oggi una fase nuova: da quest’estate grazie a un emendamento approvato all’unanimità in commissione Affari costituzionali è possibile firmare per indire un referendum attraverso lo Spid o attraverso la carta d’identità elettronica, rendendo più agevole ai cittadini partecipare e rendere possibile il far partecipare l’intero Paese ad abrogare leggi ritenute ingiuste dalla maggioranza degli italiani. La soglia relativamente alta di firme – 500.000, da raccogliersi in 3 mesi – necessaria a poter indire una consultazione era ormai quanto più antistorica e inaccessibile, tanto più in periodo di pandemia dove in piazza ci si può assembrare a banchetti ben poco.

Permangono a tutt’oggi senescenti sacche di resistenza in parte o in toto avverse all’istituto referendario, ritenuto lesivo del legiferare esclusivo dei membri delle Camere, e che neanche a dirlo vedono come fumo negli occhi anche solo l’immaginare possa essere introdotto il referendum propositivo che pure sarebbe sano e sanante, basti pensare alla (in)sufficienza con cui il Parlamento ha inteso ascoltare il popolo italiano per quanto concerne le leggi di iniziativa popolare: a venire nella storia repubblicana approvate in via definitiva  sono state di tutte le proposte l’1,15%.

L’errore, in mala o buona fede che sia, è percepire o pensare il referendum come in contrapposizione, in contrasto con la sacrosanta democrazia rappresentativa, che invece da istituti di check and balance come Corte Costituzionale e Referendum non solo è tutelata ma arricchita, e protetta persino da sé stessa ben più che se il Parlamento, per 5 anni, non potesse vedersi abrogata nessuna legge, proposta nessun’altra, dichiarata incostituzionale alcuna da alcuna Consulta e magari, oltre a questi istituti previsti dalla Carta, neanche avere un fastidievole presidente della Repubblica con la pericolosa arma di scioglimento delle Camere.

Chi pensa in tal modo, agitando lo spettro dell’antipolitica, non coglie o non vuol vedere che innanzi ha l’esatto contrario: l’arcipolitica, la volontà popolare di coelaborare e contribuire a un viver civile e a una vita politica più ricca e a base più ampia, dunque democraticamente più solida, per il Paese.

Se non suonasse anche a chi scrive un po’ blasfemo, si direbbe che la commissione Affari Costituzionali del 2021 sia stata più in sintonia col Paese di quella del 1947, se è vero come è vero che la partecipazione popolare attraverso la consultazione democratica non è mai, in nessun caso, cosa negativa.

Parimenti, la volontà di partecipare non può e non deve mai, per nessun motivo, venire inibita o ostacolata. La prova? Il referendum sull’eutanasia legale lanciato poche settimane fa veleggia agile verso il milione di firme raccolte, a fronte del mezzo milione necessario. La riprova? È stato appena lanciato il referendum sulla depenalizzazione della cannabis ha raggiunto 50.000 firme. In 5 ore. Il futuro della democrazia digitale passa da qui, a un presente migliore per le nostre vite possiamo accedere tramite Spid.