Scotto: tutte le lezioni per la sinistra italiana dell’exploit di Mélenchon

Politica e Primo piano

Intervista a L’Argomento

di Annamaria Strada

In questa intervista a L’Argomento parla Arturo Scotto, coordinatore di Articolo Uno: “È chiaro che la sinistra torna a vincere se si riappropria della questione sociale: dalle pensioni, alla salute, dal salario minimo alla lotta alla precarietà. Noi abbiamo comunque qualcosa da imparare da Mélenchon: il campo progressista deve rinnovarsi e unirsi e darsi una connotazione sociale forte. Con meno di questo la partita è già segnata.”

Cosa pensa dell’exploit di Mélenchon in Francia?

Mélenchon non è una novità nel panorama politico francese. Da socialista era il leader della corrente di sinistra e ministro di Jospin tra il ‘97 e il 2002. Poi ha abbandonato il partito e si è candidato tre volte alle presidenziali: nel 2012 prendendo il 10%, nel 2017 il 19% e poi due mesi fa con il 22% sfiorando il ballottaggio per meno di mezzo milione di voti e cannibalizzando col voto utile larga parte dell’offerta a sinistra. Ha intercettato una parte della rabbia che aveva accompagnato il quinquennio di Macron, dove la frattura tra inclusi ed esclusi si è allargata ed ha portato in Parlamento una generazione di giovani interessanti, oltre che un pezzo di lotte sociali che non avevano né voce né rappresentanza. Penso alla splendida vittoria di Rachel Keke, la leader della vertenza delle “femme de chambre d’hotel”, le lavoratrici delle pulizie negli alberghi. Insomma Mélenchon ha rimesso la sinistra in campo, dopo un quinquennio di divisioni e di impotenza. Non è una cosa da poco.

Cosa ha sbagliato Macron nell’ultimo lustro?

Macron ha rappresentato un centrismo radicale e tecnocratico, che rompeva gli argini della politica tradizionale, che inneggiava al superamento delle categorie della destra e della sinistra. Aveva una lettura della società a-conflittuale e una missione chiara: ridurre il peso dell’intervento pubblico in un paese dove lo stato ha un peso ancora molto forte. Non ha capito la domanda di protezione che veniva dai ceti più esposti dalla globalizzazione e ha adottato scelte di politica economica e fiscale regressive, con sgravi alle imprese e poco o niente al lavoro. I gilet gialli che rappresentano certamente un fenomeno ambiguo, che nasce dalla cesura sempre più larga tra metropoli e contado, sono figli di una gestione della transizione produttiva ed ecologica maldestra e superficiale.

Sicuramente Macron non è finito, ha appena vinto le elezioni presidenziali facendo leva su un fronte repubblicano che da tempo ha cominciato a scricchiolare, ma è il primo presidente della storia a non avere una maggioranza assoluta. E si è assunto una responsabilità grave mantenendosi equidistante tra Mélenchon e Le Pen nei ballottaggi. Ai liberali agitare la paura del fascismo fa comodo solo quando tocca a loro. Quando in campo c’è una proposta progressista il rischio dell’estrema destra improvvisamente scompare. È l’indicazione chiara di una scarsa coerenza e qualità delle classi dirigenti liberali, non solo francesi, che urlano al pericolo rosso perché hanno paura che qualcuno tocchi la “roba” e introduca una qualche forma di equilibrio sociale maggiormente favorevole alle classi subalterne.

Perché il socialismo fatica a gestire la globalizzazione?

Perché è dentro una dimensione ancora troppo nazionale. Lo vediamo anche sulla guerra in Ucraina. Il welfare non lo difendi più se stai solo nei confini di uno stato. O diventi una sinistra protezionista tout court oppure devi ricostruire un movimento mondiale per la giustizia sociale e ambientale. Ma questo impone anche un ritorno ad una identificazione ideologica più forte, perché la sinistra non può essere solo pragmatismo e buonsenso. Se perde la dimensione della trasformazione della società diventa una fotocopia pallida dei liberali. Se la pandemia ha cambiato tutto, accelerando anche cambiamenti in interi settori dell’economia e distruggendo e precarizzando posti di lavoro, la ricostruzione non può essere appaltata alla mano invisibile del mercato. Perché in quello spazio la sinistra semplicemente non ha ragione di esistere.

Cosa pensa delle dichiarazioni della Royal nell’intervista a Il Corriere della Sera? Anche in Italia dovremmo rinunciare alla necessità di governabilità a favore di una maggiore democraticità e rappresentatività?

Io la penso come lei. Quando hai una società così frammentata, dove le istanze sociali, territoriali, generazionali sono difficilmente componibili con un si o un no, devi dare sfogo alla rappresentanza. Il mito della governabilità a tutti i costi ha ridotto il peso dei corpi intermedi e alimentato il populismo. Di sinistra, di centro e di destra. Io credo nel proporzionale non perché è una formula che oggi può aiutare ad arginare il cappotto della destra in Italia, ma perché serve per ricostruire i partiti, che non possono essere solo comitati elettorali del leader. Il trasformismo in questo paese lo ha alimentato il maggioritario che ha destrutturato la trama democratica dei partiti identitari e radicati socialmente. Lo vediamo ovunque, più il parlamento non conta nulla, più la frantumazione delle proposte politiche aumenta. Bisogna ridare forza ai partiti per ridare dignità ai Parlamenti.

La sinistra italiana che lezione deve cogliere dai risultati francesi?

Non penso che Mélenchon sia un modello esportabile. Ci sono differenze profonde tra noi e la Francia e non solo nel sistema di voto. Ha abbandonato alcune proposte hard sia sull’Ue che sulla Nato, che non sono mai state parte dell’elaborazione italiana, ma resiste indubbiamente in quel paese una cultura più radicata della funzione autonoma della Francia e una diffidenza verso il processo di integrazione europea. Nessuno si candida ad essere l’alfiere di un europeismo acritico e del vincolo esterno, nemmeno Macron. Allo stesso tempo  va letto bene il dato, anche sul piano della composizione dell’elettorato: lui pesca innanzitutto tra le giovani generazioni dove si arriva al paradosso di un settantenne che conquista il cuore dei ventenni e di un quarantenne che viene sostenuto invece dagli ultra sessantenni. Solo che gli anziani votano con più frequenza, mentre i giovani rafforzano le fila di un astensionismo spaventoso. Chi vota Mélenchon ha un’istruzione medio alta, vive prevalentemente nei centri urbani di Parigi, Marsiglia, Lione eppure si sente insicuro, non è più classe dirigente a prescindere. La Nupes (la Nouvelle Union Populaire Ecologiste et Sociale) prende una valanga di voti anche tra i nuovi cittadini di origine magrebina e africana della banlieue attorno alle metropoli, che per la prima volta vanno a votare in tanti e occupano la scena politica riprendendo la parola e dunque la cittadinanza. Cala invece nel ceto operaio ed ex operaio che aveva guardato con fiducia al suo discorso protezionista di cinque anni fa e che invece è tornato nelle braccia di Le Pen.

Dunque, è chiaro che la sinistra torna a vincere se si riappropria della questione sociale: dalle pensioni, alla salute, dal salario minimo alla lotta alla precarietà. Tuttavia se non riesci nell’impresa di saldare i perdenti della globalizzazione con i nuovi bisogni dei ceti metropolitani non riesci ad essere maggioranza. E infatti, pur nel grande balzo di Mélenchon, è quello che è mancato. Noi abbiamo comunque qualcosa da imparare: il campo progressista deve rinnovarsi e unirsi e darsi una connotazione sociale forte. Con meno di questo la partita è già segnata.