Scotto: se il Pd accelera le primarie, noi non siamo interessati

Politica e Primo piano

Intervista a Il manifesto

di Andrea Carugati

Arturo Scotto, coordinatore di Articolo Uno. Voi dovreste essere tra quelli che partecipano alla fase costituente del nuovo Pd. Ma i dem vogliono accelerare le primarie, non vogliono più restare nel limbo.

Il Pd, e lo dico con rispetto, deve decidere se aprire una fase costituente con una chiamata larga verso soggetti esterni, o se intende limitarsi a fare il suo congresso ordinario. Anche quest’ultima sarebbe una scelta legittima, che rischia però di produrre una fase di riflusso e non di rilancio. Il limbo non sta nel vuoto di leadership, ma nell’assenza di scelte chiare.

Voi siete usciti dal Pd nel 2017. Perché rientrare adesso che quel partito è in piena crisi di identità?

Alle politiche abbiamo contribuito ad una lista unitaria che aveva un programma molto netto su lavoro e diritti. Non è stata una scelta di ripiego, ma il primo passo verso la costruzione di una “cosa nuova”, come dice Bersani. La costituente può essere una grande occasione per tutta la sinistra per ripensarsi. Ma se nel Pd ritengono che sia una perdita di tempo si sprecherà un’occasione preziosa con una operazione estetica che non appassiona nessuno. In quel caso, facciano le primarie entro fine anno, poi la costituente si vedrà dopo.

E voi restereste alla finestra?

Se sarà un normale congresso del Pd tante forze esterne, non solo noi, non saranno interessate. Accelerare per la paura della concorrenza di Calenda e Conte sarebbe un errore. Serve un processo rifondativo vero per uscire da quella che Bettini ha definito «mezzadria dell’anima». In questo tempo non si può essere contemporaneamente socialisti e liberali: bisogna scegliere. E lo strumento giusto non sono le primarie: se ti limiti a fare quelle i nodi irrisolti si riproporranno un minuto dopo.

Il Pd però è nato proprio come un partito interclassista che voleva contenere socialisti, liberali e anche altri: il partito della nazione.

Lo stesso Letta ha spiegato che, rispetto al 2007, siamo in una fase storica nuova e bisogna ripensare tutto. La fase dell’ottimismo verso la globalizzazione neoliberista è finita, si è aperta una stagione più dura del capitalismo, il welfare è a rischio e la domanda di protezione sociale si orienta a destra. Non è più tempo di un centrosinistra classico, ma di un nuovo pensiero socialista. I leader vengono dopo.

Alla fine è possibile che, se nel Pd prevale una linea liberale, la sinistra esca. Invece di rientrare voi ci sarà una nuova scissione?

Non parlo di nuove scissioni, ma di come si costruisce una costituente vera, una rifondazione della sinistra.

Alle regionali nel Lazio e in Lombardia si annuncia una nuova debacle.

Continuiamo a farci del male. Di fronte a una destra ancora più divisa dopo le prime settimane di governo, il campo progressista continua a insistere sulle differenze. Vale nel Lazio come in Lombardia, dove Calenda continua con le provocazioni come la candidatura di Letizia Moratti.

Nel Lazio sosterrete Alessio D’Amato con il Pd?

Abbiamo condiviso l’esperienza di Zingaretti, di cui D’Amato è stato un bravo assessore sul fronte della difesa della sanità pubblica. Io credo che si debba ancora ragionare con Conte, cercarci e capirci.

Elly Schlein ha fatto un passo avanti nel congresso dem.

È una delle personalità più forti emerse negli ultimi anni a sinistra. Ha carisma e pensiero. Ricordo però che non si è candidata a nulla, ha solo annunciato che sarà nella costituente. Anche lei è consapevole che senza ridefinire identità e missione, le primarie non risolveranno nessun problema. Sa bene che la sfida non è una nuova leadership individuale.

Forse i dem accelerano proprio per frenare la sua corsa.

Mi pare prevalga la paura dell’attacco da parte delle altre opposizioni. Ma più il Pd è reticente nel darsi una nuova identità, più sarà automatica la cannibalizzazione da parte delle altre forze.

La guerra è uno dei temi chiave del percorso che si apre? La linea del Pd pare immutabile.

Il messaggio di piazza San Giovanni è molto chiaro: occorre correggere la linea di politica estera degli ultimi mesi e impegnarsi per un ruolo più assertivo della diplomazia. La cultura della pace deve essere un pezzo fondamentale della nuova identità.

Voterete altri invii di armi?

Non credo che oggi il tema sia inviare nuove armi. Ora l’Italia e l’Europa devono lavorare davvero per chiudere questo conflitto. E questo non si ottiene spingendo l’Ucraina verso una vittoria militare sul campo aprendo la strada a una escalation nucleare: le armi ora devono tacere.