Scotto: ora una nuova sinistra. La bussola è il socialismo europeo

Politica e Primo piano

Intervista a L’Avanti della domenica

di Giada Fazzalari

Mettere tutto in discussione per rifondare la più grande forza della sinistra italiana è una novità che dovrebbe interessare tutte le forze politiche del centrosinistra, quelle che hanno subito una battuta d’arresto alle scorse politiche perché “hanno inseguito un’ansia di legittimazione che non ci ha consentito di vedere che stava crescendo nel paese una spaventosa disuguaglianza”. È l’analisi di Arturo Scotto, coordinatore di Articolo Uno, napoletano, classe ’78, che si è formato politicamente attraverso l’esperienza nelle sezioni di partito, sin da adolescente, quando, appena quindicenne, si iscrive alla Sinistra Giovanile. Un’esperienza dalla quale, all’alba della Seconda repubblica, partirà una lunga carriera politica, come spesso accadeva nelle organizzazioni giovanili dove si ricoprivano ruoli apicali. Un percorso che lo ha visto militante e dirigente nel Pds, nei Ds, candidato dell’Ulivo ed eletto come il più giovane. dei parlamentari nella XV legislatura, capogruppo di Sel. È tra i fondatori, insieme a Roberto Speranza e Pier Luigi Bersani, di Articolo Uno. Sempre in un solo “luogo”: a sinistra.

Il percorso che porterà al congresso del Pd è già in atto e il rischio, per il coordinatore di Articolo Uno, è che “si imbocchi una scorciatoia incoronando una nuova leadership, qualunque essa sia”, e invece, “la questione dell’identità di una moderna forza di ispirazione socialista ed ecologista deve venire prima”. Un appello che si unisce ad altri e che può gettare le basi per una nuova “cosa” di sinistra. Socialista.

Articolo Uno ha annunciato di voler partecipare al processo costituente del Pd. In che modo lo farete? 

La proposta avanzata da Letta di una fase costituente, dove mettere tutto in discussione per rifondare la più grande forza della sinistra italiana, secondo me è una novità che dovrebbe interessare tutte le forze politiche e associative che si muovono nel nostro campo. È un’occasione importante per ridisegnare dalle fondamenta la natura e l’identità di una sinistra popolare e di governo, che si ponga il tema di un reinsediamento sociale nei mondi dai quali siamo stati espulsi. Innanzitutto il lavoro: i tradimenti che vengono attribuiti al centrosinistra sono molteplici e il distacco da chi vive la condizione di precarietà e di impoverimento del potere d’acquisto è quella principale. Il resto viene dopo. La costituente o è questo o è un’occasione mancata.

E parteciperete anche alle primarie? 

Per noi la prima fase, quella del dibattito costituente, è quella decisiva. Le primarie sono una conseguenza. Non sono un appassionato dello strumento, penso che vada bene per gli amministratori, per un partito è un’altra cosa. Dopodiché verificheremo dopo la scrittura del programma fondamentale e della carta dei valori. La nostra decisione come soggetto collettivo dipende da quel passaggio, che non è banale. Perché i segretari passano, i partiti restano.

L’impressione però, dicono gli osservatori più critici, è che nel Pd le correnti siano all’opera semplicemente per eleggere un nuovo segretario e non per mettere in atto un processo di “ripensamento” più profondo. 

Il rischio che io vedo concretamente è che si imbocchi una scorciatoia incoronando una nuova leadership, qualunque essa sia. Io invece penso che la questione dell’identità di una moderna forza di ispirazione socialista ed ecologista – perché i due termini sono ormai sinonimi – venga prima. Altrimenti sarebbe più saggio dare il via alla gazebata prima e il processo costituente dopo. Non è una mia fissazione sui tempi, ma la sconfitta è talmente vasta, prima ancora che in termini elettorali sul piano politico, che la chiamata – così come l’ha definita giustamente Letta – non può avere la scadenza come lo yogurt. Deve attraversare il paese, deve interloquire con il tessuto associativo che ci ha visto come estranei, deve ricostruire – nella reciproca autonomia – un nesso con i sindacati, deve pescare nelle giovani generazioni che avvertono il pericolo di una destra che ha le caratteristiche regressive che comprime le libertà, deve riannodare i fili con un vasto movimento per la pace che chiede un negoziato e lo stop alla retorica della guerra e un nuovo protagonismo diplomatico dell’Italia e dell’Europa.

Hai recentemente sostenuto che per il centrosinistra è il tempo di “un nuovo pensiero socialista”. 

Nel solaio di casa ci sono tante cose buone. Basta uscire dalla pigrizia intellettuale degli ultimi due decenni che ci hanno consegnato l’illusione che le ideologie fossero finite. È successo esattamente l’opposto. Il nazionalismo ha vinto perché ha offerto una cornice intellettuale solidissima e fondata sulla paura dell’altro, sulla retorica delle piccole patrie, sulla centralità della domanda di protezione, su un capitalismo compassionevole capace di parlare ai ceti perdenti della globalizzazione. Noi abbiamo inseguito un’ansia di legittimazione che non ci ha consentito di vedere che cresceva una spaventosa disuguaglianza nelle democrazie occidentali che metteva a rischio la stessa tenuta delle nostre istituzioni. La diseguaglianza è la malattia del XXI secolo. Combatterla è la missione per cui la sinistra è al mondo. Diffido di chi descrive le società occidentali come un luogo pacificato dove i conflitti sono scomparsi dall’orizzonte. Non è così, lo dimostra la spaventosa distanza tra le rendite e il lavoro, tra le esigenze del consumo e l’emergenza climatica, tra gli interessi delle industrie di armi e il bisogno di pace.

In Europa i grandi partiti di sinistra sono socialisti, inItalia no. Il Pd sarebbe pronto a tuo avviso a cambiare persino nome e chiamarsi “socialdemocratico” come accade in tutta Europa e però non a limitarsi a un restyling nel nome ma a mettere in pratica una politica ispirata al socialismo europeo?

Io penso che il socialismo europeo sia una casa dove fare una battaglia politica. È il luogo dove le principali forze della sinistra in Europa si identificano e dunque bisogna stare lì. Eppure nel Pse permangono le contraddizioni grandi sul rapporto tra stato e mercato, sulla centralità dei beni comuni, sul superamento di un’Europa ancora troppo intergovernativa, su un’idea di multilateralismo che va recuperata per portare il pianeta nella direzione del disarmo e della coesistenza pacifica. Mi ha colpito la difficoltà ad atterrare sul piano nazionale del dibattito del congresso di Berlino a ottobre. Forse perché è. mancato un messaggio forte e assertivo davanti alla crescita dell’estrema destra – il governo Meloni all’estero resta qualcosa di incomprensibile – e alla catastrofe della guerra in Ucraina. Eppure è una bussola nella quale identificarsi, se non altro perché quella parola socialismo resta il terreno ideale e morale nel quale condurre una contesa con un tecnocapitalismo che ha accumulato un potere talmente grande da annichilire la politica e ridimensionare la capacità di manovra degli stati.

Cosa rimane della esperienza dei tre partiti che si richiamano al socialismo europeo – Pd, Psi, Articolo Uno – che hanno costituito la lista alle politiche?

Resta una traccia, una ricerca politica e programmatica che non va dispersa. Italia democratica e progressista ha purtroppo pagato il prezzo di essere apparsa esclusivamente come un’impresa elettorale e non l’annuncio di un soggetto politico nuovo. Forse anche per i tempi precipitosi delle elezioni anticipate che hanno pesato moltissimo e non hanno consentito di dispiegare un programma innovativo e socialmente connotato. Ci sono stati poi anche deprezzi ingiusti che sono stati pagati, penso soprattutto al Psi e al suo bravo e coerente segretario Enzo Maraio. Spero che quel filo di dialogo e di confronto non si spezzi troppo frettolosamente e si riesca insieme a Pd e Articolo Uno a trovare un cammino comune di nuovo. Siamo tutti in Europa con il Pse anche nelle differenze, dobbiamo fare lo stesso in Italia. Perché anche dopo la sconfitta resta intatta nel paese una domanda di unità e di rinnovamento che abbiamo il dovere di interpretare.