Scotto: l’inchiesta umbra ci mette dove non ci dovremmo mai trovare

Politica e Primo piano

Intervento su Huffington Post

di Arturo Scotto

Il ritratto del potere politico in Umbria è disarmante. Un pugno allo stomaco. Un colpo al mito del buongoverno. Non si tratta di fare i moralisti, bensì di guardare in faccia il problema. Se è vero che il voto del 4 marzo ha squadernato i segni di una rivolta popolare contro un sistema nel quale la sinistra era identificata – nepotista, clientelare, inefficiente – le conseguenze di questa inchiesta ci rimettono non dovremmo mai farci trovare: dalla parte dei raccomandati. Bisogna essere garantisti sempre quando si apre un’inchiesta: con la Lega, con i Cinque stelle, con il Pd. Ma qui il garantismo non “c’azzecca nulla”.

Qui il tema riguarda una dinamica dell’esercizio dei poteri pubblici che è diventata ingiusta, autoreferenziale, vessatoria nei confronti di chi sta fuori del giro, di chi è bravo e non ha santi in paradiso, di chi è outsider. Chi ha provato a guardare dentro quella insorgenza che troppo frettolosamente abbiamo liquidato come populismo, ha scrutato senza ombra di dubbio una rabbia verso un sistema che appare bloccato, immodificabile. Una rabbia giusta. Una generazione di ventenni e di trentenni a cui hanno spiegato che la flessibilità era la chiave del successo e invece si sono svegliati precari e soli. Senza paracadute.

Ma come si fa a non vedere che nella composizione elettorale del successo grillino, c’è un tentativo di sfondare la porta del solito giro di incarichi professionali, di concorsi truccati, di baciamano al politico di turno? Di pratiche vecchie come il cucco che non hanno nemmeno più la forza di costruire filiere clientelari capaci di fare da ammortizzatore sociale – una volta c’erano quelli delle poste, quelli dei forestali, quelli degli Lsu – e si riducono al giro dei parenti o delle amanti? Siamo di fronte a un clientelismo da basso impero che si riduce a una logica familistica, nemmeno più confinata ad un’area specifica del paese. E’ invece la biografia di un pezzo di classi dirigenti che hanno perso autonomia verso l’impresa e l’economia e si limitano a gestire le briciole che restano. Il tema non è più se un’amministrazione si scioglie o meno, se un partito viene commissariato o azzerato.

Il tema è il meccanismo. Più la politica conta meno, più il sistema di relazioni informali diventa l’unico sfogo di chi amministra. Riguarda tutti. E dunque non merita una cattedra di moralismo, ma una capacità di autoriforma delle istituzioni. Che finiscano i giri di incarichi professionali ai soliti dieci studi legali di una città o di una regione. Che i margini di discrezionalità delle nomine nelle strutture pubbliche siano ridotti drasticamente. Che si chiuda la stagione del precariato nella Pubblica amministrazione, altra leva per mettere sotto ricatto il lavoro. Che si riapra un dibattito su cosa non ha funzionato del regionalismo in questi ultimi venti anni. O aggrediamo questi nodi oppure giuro che al prossimo convegno sulla meritocrazia organizzato dal centrosinistra mi metto a fischiare.