Arturo Scotto

Scotto: Berlinguer non era un protogrillino, non facciamone un’icona

Politica e Primo piano

Intervento su Huffington Post

di Arturo Scotto

No, non siamo stati degni eredi di Enrico Berlinguer. Lo abbiamo agitato come una bandiera a ogni anniversario, ne abbiamo citato “ad usum delphini” le interviste più importanti, abbiamo usato le sue frasi nei comizi per strappare un applauso in più. Eppure, di quella lezione abbiamo conservato poco o nulla.

Nei gesti della nostra generazione, nelle modalità in cui abbiamo organizzato i nostri partiti, nella intensità con cui abbiamo portato avanti le battaglie che il nostro tempo ci ha consegnato. Non siamo stati degni eredi, dunque, perché ne abbiamo fatto un amuleto, un santino da esibire per proclamare una diversità che funzionava a corrente alternata, nei giorni pari e non nei giorni dispari.

Miriam Mafai qualche anno fa, con una provocazione intellettuale che fece discutere, ci chiedeva di “seppellire Berlinguer”, perché rischiava di non parlare più all’Italia che entrava nella moneta unica, che vedeva la nascita dell’Ulivo, che si preparava a una lunga transizione dall’economia mista a quella di mercato. Un’Italia che chiedeva un’alternanza di tipo anglosassone, non una dialettica tra forze ideologiche.

Non ho mai condiviso quell’impostazione, l’ho sempre trovata un anticipo di rottamazione, una normalizzazione surrettizia delle nostre radici. Persino al netto della volontà di chi la invocava. Tuttavia, se Il segretario del PCI doveva finire nel minestrone dei luoghi comuni della pubblicistica italiana oppure nel trasversalismo retorico che arriva addirittura ad accostarlo a Giorgio Almirante, forse aveva ragione Miriam Mafai: meglio seppellirlo.

Eppure non è così, Berlinguer è ancora attualissimo, nonostante noi. Se nel trentacinquesimo anniversario Berlinguer parla ancora a tanti giovani fuori dai partiti della sinistra tradizionale forse è perché il vuoto è gigantesco. Ed è il vuoto scaturito dal nostro fallimento. E non riguarda solo la moralità di una stagione politica che non c’è più. Riguarda innanzitutto l’idea che la politica possa cambiare le condizioni materiali delle persone, soprattutto dei vinti, degli sfruttati, degli esclusi.

Invece, negli anni è venuta avanti una sorta di canonizzazione del leader comunista, di cui si citava solo l’intervista di Eugenio Scalfari sulla questione morale – che era l’esatto opposto dell’anticipazione dell’ondata giustizialista di questi decenni – e si dimenticava la natura profondamente di parte del suo messaggio politico.

Sì, perché Berlinguer era indubbiamente un uomo stimato da tutti, ma non ha mai pensato di essere un padre della patria. Era il capo della classe operaia, era colui che si era candidato a guidarla fino al Governo del Paese e, in quanto tale, si faceva carico degli interessi generali. Era l’uomo dello strappo con i sovietici, che aveva alimentato una linea eterodossa rispetto al socialismo reale, che fondava l’eurocomunismo, senza mettere mai in discussione l’originalità di un punto di vista autonomo di classe della società Italiana e mondiale.

Dunque, Berlinguer era un uomo del conflitto che sapeva fare i compromessi. Perché pensava che il potere serviva soprattutto per far avanzare la porzione di società che voleva rappresentare.

Non si può separare il Berlinguer della questione morale dalla battaglia a difesa della scala mobile, non si può incastonarlo nel compromesso storico senza capire che l’alternativa democratica era figlia della stessa strategia da attuare in un passaggio storico diverso, non si può confondere l’intuizione dell’austerità – come filosofia di una crescita orientata ai consumi collettivi e alla tenuta del pianeta rispetto allo sviluppo capitalistico – con l’austerity delle burocrazie neoliberali di Bruxelles.

Non si può rimuovere il segretario che capisce prima di tutti la potenzialità straordinaria del movimento femminista e l’urgenza della questione ambientale. Non si può valorizzare la sua adesione alla NATO e all’Unione Europea senza ricordare la battaglia per la pace contro gli euromissili a Comiso.

Insomma, Berlinguer è una personalità complessa, pienamente dentro la faticosa costruzione della democrazia italiana dopo il ventennio fascista, figlio dei ristretti margini di autonomia che la guerra fredda aveva consegnato al movimento comunista italiano. Sarebbe sbagliato guardarlo attraverso le lenti della miseria politica in cui siamo precipitati oggi.

Sarebbe un errore disegnarlo come un protogrillino piuttosto che come un anticipatore della svolta liberal-democratica della sinistra italiana. Berlinguer va innanzitutto restituito al suo tempo e alle sue idee. Va tolto dall’album delle figurine in cui l’abbiamo relegato e riportato alla sua dimensione di dirigente politico della sinistra.

Per questo, se vogliamo evitare di essere patetici, dovremmo trasmettere il suo messaggio agli italiani nella sua interezza, persino nelle sue contraddizioni. Perché quella idea di una società più giusta e libera rappresenta ancora il bisogno principale della maggioranza degli italiani. E un’indicazione irrinunciabile della lotta che va portata avanti. Era un uomo politico serio, non un’icona da tatuare sul braccio.