Scotto: a fallire è stata tutta la sinistra, ora può rinascere

Politica e Primo piano

Intervista a Il Riformista

di Umberto De Giovannangeli

Arturo Scotto, Coordinatore nazionale di Articolo Uno, è tra i dirigenti più apprezzati dai militanti del partito, per il suo stretto legame con i territori e per essere il propugnatore di un rapporto col Pd che lui ha efficacemente sintetizzato così: «Ci interessa influire, non confluire». E non sembra proprio con le valige in mano pronto a traslocare in casa dem.

“Cosi, mentre D’Alema mi descrive come ‘malato’, io sono sinceramente contento se i compagni di Articolo Uno prendono finalmente atto del fallimento del loro progetto scissionistico e decidono, conseguentemente, di rientrare nel Pd”. A sostenerlo, in una intervista a questo giornale, è Enrico Morando, leader dell’area liberai del Partito democratico. A lei la risposta.

Mi stanca un dibattito con il torcicollo. Non mi convince l’idea che si costruisca un confronto chiedendo abiure, rinfacciandosi fallimenti, recriminando sulle scelte sofferte che molti compagni hanno fatto dando vita ad Articolo Uno. Il centrosinistra di questi anni è stato purtroppo battuto sul terreno che avrebbe dovuto occupare naturalmente. Questa rimozione, che vedo anche nel discorso di Enrico Morando e di altri dirigenti autorevoli del Pd, mi preoccupa. Come se la storia fosse solo una contesa tra stati maggiori. È fallita l’idea di una sinistra che si è presentata come una variante un po’ più umana della mondializzazione: ce lo racconta il voto dei ceti popolari che guardano a destra perché su fisco e lavoro siamo apparsi e in buona parte siamo stati come lo schieramento dei vincitori, di quelli che ce l’hanno fatta. Oggi in tutto l’Occidente la sinistra ragiona su una ripresa dell’iniziativa pubblica per orientare gli investimenti, su grandi piani di conversione ecologica, su un fisco progressivo che intervenga sui grandi patrimoni, sulla lotta alle degenerazioni del finanzcapitalismo, sulla fine del lavoro delocalizzato e sottopagato, sulla difesa di beni comuni fondamentali come sanità e scuola. Lo dicono i socialdemocratici alla Scholz, non solo i radicali della Linke. E, invece, mi pare che si voglia battere sempre la stessa palla. Questi i temi del confronto con il Pd e con tutto il centrosinistra, non altri. Gli esami non finiscono mai, ma non vale solo per noi.

Nell’ormai celebre brindisi dell’ultimo dell’anno di Articolo Uno, Massimo D’Alema ha sostenuto che la fase renziana del Partito democratico è come “una malattia che fortunatamente è guarita da sola”. Condivide questo giudizio ed è sufficiente per giustificare un ritorno a casa?

Un brindisi non è un congresso. Quello lo faremo in primavera. Ha fatto molto più discutere una frase detta in un contesto rilassato e festoso che il confronto che abbiamo avuto una settimana fa con la segreteria nazionale della Cgil sui temi al centro dello sciopero generale. Arrivano 200 miliardi di investimenti e si rischia di uscirne con più contratti precari che stabili. Se non c’è uno sbocco a sinistra dalla crisi, come ha affermato pure Letta, saranno altre forze ad assorbire il disagio sociale diffuso nel paese. E che non trova rappresentanza, nemmeno nello schieramento progressista così come è. Detto questo, è velleitario pensare che una nuova sinistra democratica si costruisca al netto e contro la massa critica rappresentata dal Pd. Delle novità ci sono, non farci i conti sarebbe miope. Il Pd del Lingotto poneva davanti a tutto la vocazione maggioritaria. Oggi nessuno nega la necessità di una politica di alleanze, innanzitutto col M5s. Si torna a ragionare sul finanziamento pubblico alla politica, sulla ricostruzione di partiti socialmente connotati e non di partiti pigliatutto e persino di una legge elettorale di impianto proporzionale. Questo è anche un risultato della nostra iniziativa, altro che fallimento! Nel 2013 e nel 2018 venivamo presi per matti affermando che nel voto grillino c’era tanto popolo nostro che si era sentito tradito e abbandonato. E che bisognava costruire un ponte con quelle ragioni per riportarle alla politica e alla sinistra. C’è qualcuno che oggi può affermare che quella linea fosse sbagliata? Eppure l’abbiamo portata avanti per un lungo periodo in solitudine. Se questa analisi è oggi patrimonio comune, è più facile aprire, attraverso le Agorà che sono uno spazio aperto, un dibattito per costruire una casa unitaria di tutti i progressisti italiani.

La prospettiva evocata da D’Alema parte anche dalla presa d’atto del fallimento del progetto di costruzione di un soggetto politico significativo a sinistra del Pd.

Articolo Uno è un pezzo del campo largo del socialismo europeo. Un soggetto critico, ma dentro quella storia. Persino nei momenti di maggiore tensione con il Pd a guida Renzi abbiamo cercato il terreno dell’unità. La violenza con cui ben due volte in Parlamento fu posta la fiducia su una legge elettorale costruita su misura del capo e della sua ansia presidenzialista rese il campo impraticabile. Il nostro obiettivo, come dice sempre Bersani, è quello di costruire una sinistra plurale e di governo. Sinistra, perché c’è un mondo del lavoro vecchio e nuovo senza rappresentanza politica. Plurale, perché ci sono culture del XI secolo – ambientalismo e femminismo innanzitutto – che non possono ridursi a una riga del programma elettorale. Di governo perché, come abbiamo dimostrato con Roberto Speranza, si può stare nella stanza dei bottoni, farsi carico dell’interesse generale, senza perdere l’anima. Abbiamo dato un tetto a migliaia di militanti che altrimenti avrebbero rimpolpato l’area del non voto, distaccandosi dalla partecipazione politica. Lo rivendico. Persino il risultato magro raccolto nel 2018, al di sotto delle nostre aspettative, non avrebbe sicuramente gonfiato le vele del Pd. La rottura era così radicale che, se non avessimo interpretato noi quella domanda di rappresentanza, sarebbe andata altrove. La storia non si scrive solo con le percentuali elettorali.

“In Italia la sinistra c’è: si chiama Draghi”. E II titolo de Il Riformista a un articolo di Michele Prospero. Scrive Prospero: “Si può costruire una coalizione larga attorno a Draghi per vincere sul terreno politico la battaglia contro i sovranisti e gli euroscettici. Dinanzi all’usura dell’attuale formula di governo, la verifica elettorale sarà risolutiva”. Come la vede?

Penso che Prospero sbagli. Draghi non è la sinistra che serve al paese. È un civil servant che in una fase di emergenza ha dato una mano grande. Non lo immagino catapultato nella bagarre politica e non credo che i progressisti debbano ricorrere all’ennesimo papa straniero. Il referendum tra europeisti e sovranisti è il modo peggiore per approcciarsi alla prossima sfida elettorale. Vinciamo se diciamo quale Europa vogliamo costruire e, dunque, quale sovranità. L’Europa ha battuto un colpo sul Recovery – grazie anche all’impegno del governo Conte, sul quale vedo in giro troppa damnatio memoriae perché i pregiudizi sono duri a morire anche in certa sinistra – inaugurando finalmente gli Eurobond, da sempre un cavallo di battaglia del campo socialista. Ora ci attende la sfida della riforma del patto di stabilità. Possiamo vincerla solo con governi legittimati dal voto popolare, che cambino l’Europa nel senso della redistribuzione, della giustizia sociale, di una geopolitica della distensione tra i nuovi attori globali. La divisione scolastica tra apocalittici e integrati è il più grande regalo che faremmo alla destra.

Annota ancora Prospero: “È evidente che Draghi saprebbe interpretare il cerimoniale presidenziale con efficacia e prestigio garantendo così una copertura significativa da spendere nelle trattative per smuovere gli intricati rapporti europei”. Strada in discesa per il Quirinale?

Non mi avventuro in previsioni. Dubito che il lavoro a Palazzo Chigi sia finito. È difficile dire “missione compiuta” con 200mila contagi al giorno e 51 progetti da mettere a terra. Per esperienza, avendo contribuito direttamente da capogruppo di Sel all’ultima elezione nel 2015 di Mattarella, nessuno può dire chi andrà al Quirinale in un Parlamento tanto balcanizzato con il gruppo misto più ampio della storia repubblicana. Serve un accordo ampio, un sussulto delle forze politiche, ma soprattutto una bussola. Il mandato del presidente della Repubblica dura sette anni, non va agganciato a un quadro politico transitorio. Non vedo dunque un automatismo tra l’attuale configurazione della maggioranza governativa e quella presidenziale per il Quirinale. Possono coincidere ovviamente, ma non si può ragionare come se fossero equilibri eterni e cristallizzati. Mattarella fu eletto con una maggioranza stretta, più stretta di quella dell’allora Governo Renzi, ma ha rappresentato al meglio l’unità morale del paese. Bisogna cercare un profilo che stia nel solco pieno della Costituzione nata dalla Resistenza. Nel 2022 ricorrono i cento anni della Marcia su Roma, il battesimo della dittatura di Mussolini. La pagina più terribile del 2021 è stata l’assalto squadrista alla Cgil, la casa dei lavoratori italiani. La storia ci mette davanti ad analogie inquietanti. Guai ad abbassare la guardia davanti al ritorno di fenomeni neofascisti, talvolta assecondati da forze della destra istituzionale. Sarebbe inconcepibile se chi ha sdoganato i reazionari in Italia ascendesse al soglio quirinalizio. Bisogna scongiurare questo scenario: non è una boutade folcloristica, non trattiamolo con saccenza.