Reddito: Guerra, il taglio del reddito colpirà i minori e le donne

Politica e Primo piano

Intervista a Il manifesto

di Roberto Ciccarelli

Maria Cecilia Guerra, sottosegretaria all’economia e candidata alla Camera nella lista Pd-Italia democratica e progressista a Torino, Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia sostiene che un governo da lei guidato riconoscerà il «reddito di cittadinanza» solo agli over 60 privi di reddito, invalidi, famiglie senza reddito che hanno figli minori a carico e sarà tolto a coloro che hanno tra i 18 e i 59 anni e sono in grado di lavorare, cioè la metà degli attuali percettori. Che tipo di misura a suo avviso diventerebbe il «reddito»?

È molto difficile capirlo. Quelle di Meloni sono indicazioni vaghe che si basano sul pregiudizio che il «reddito» sia stato pensato per permettere a una persona di non lavorare. Invece dura 18 mesi rinnovabili e prevede la decadenza del sussidio in caso di un secondo rifiuto di un’offerta di lavoro. La sua lettura non corrisponde alla realtà perché il 26% dei percettori del reddito sono minorenni, il 20 per cento lavorano ma non guadagnano abbastanza per garantirsi un reddito decoroso. Tra questi il 60 per cento ha un contratto a tempo determinato. Questo significa che la povertà riguarda anche chi lavora e non è legata solo alle basse retribuzioni, ma anche al basso tempo di occupazione. È un problema che colpisce i giovani e le donne. Queste persone non sono nemmeno considerate da Meloni e rischiano di essere travolte.

In cosa consiste il pregiudizio sul «reddito» coltivato da molte forze politiche in Italia?

Consiste nel pensare che la povertà sia responsabilità dell’individuo. La povertà nella stragrande maggioranza dei casi è il prodotto di circostanze economiche e sociali ed è molto grave nel caso dei minori. Chi cresce in povertà ha una probabilità elevata di non liberarsi mai da questa condizione perché non accede a case decorose, a percorsi di studio, a stimoli sociali e culturali. Non facciamo elemosina di Stato, ma rispondiamo a una responsabilità collettiva che consiste nell’aiutare chi è in una situazione di bisogno a superare le difficoltà. È una politica necessaria in queste crisi che si moltiplicano.

Meloni ha attribuito la responsabilità del fallimento del «reddito» come misura di politica attiva del lavoro ai «navigator». A cosa è dovuto realmente il fallimento di questa misura di Workfare?

Il reddito e le politiche attive del lavoro sono questioni collegate ma non sono la stessa cosa. L’errore lo hanno fatto i Cinque Stelle e la Lega nel primo governo Conte quando hanno puntato tutto sull’occupazione. Da qui è nato il dibattito deviato che si trascina ancora oggi. Il «reddito» dà assistenza a persone non attivatili al lavoro, il 50% degli attuali percettori, o che non hanno avuto la possibilità di accedervi, anche a causa dei limiti delle politiche attive del lavoro. Solo di recente è nata la consapevolezza di intervenire con il programma «Gol» e il suo rafforzamento nel Pnrr. Il nostro problema è che abbiamo sistemi regionali molto diversi che rendono difficile garantire il funzionamento dei centri per l’impiego in maniera uniforme in tutto il paese. In molte zone questa situazione colpisce soprattutto le donne che non sono assistite da un sistema adeguato di servizi sociali e sono dedite al lavoro di cura per i figli e gli anziani non autosufficienti.

Per risolvere il problema delle competenze tra Stato e regioni sulle politiche occupazionali non sarebbe necessaria una riforma costituzionale?

Potrebbe essere necessaria, ma si potrebbe affrontare il problema anche attraverso la definizione e l’esigibilità dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) nell’ambito delle politiche attive del lavoro.

Renzi ha definito il «reddito» come un «voto di scambio». Cosa ne pensa?

Come dovremmo allora considerare l’assegno unico e universale per i figli voluto tra gli altri anche da lui? Si tratta di un voto di scambio, oppure di una politica sociale come lo è il «reddito»? A molti partiti manca una visione complessiva delle politiche sociali e tendono a scegliersi la propria bandierina e a strappare quella degli altri. Noi di sinistra cerchiamo di avere una prospettiva unitaria finalizzata al contrasto delle disuguaglianze.

Tra il centrosinistra e i Cinque stelle circola l’idea di modificare comunque il «reddito». Lei da cosa partirebbe?

Questa misura ha un gravissimo limite che a me provoca indignazione. Non è riconosciuto alle famiglie dei cittadini stranieri residenti da meno di 10 anni. Così esclude le persone che sono più povere, spesso pur lavorando. E un’ingiustizia inaccettabile. La scala di equivalenza utilizzata nel reddito penalizza le famiglie numerose che sono più povere. Per fortuna siamo riusciti a correggere questo aspetto con l’assegno universale per i figli.

Questi problemi saranno affrontati da un governo dell’estrema destra?

Credo proprio di no, perché non li considerano tali.