Oggionni: subito legge su salario minimo e su rappresentanza sindacale

Politica e Primo piano

Pubblicato su Huffington Post

di Simone Oggionni

Che cos’è la sinistra se non ritrova un rapporto con il lavoro, le lavoratrici e i lavoratori, i loro bisogni? E come si ricostruisce il rapporto senza un programma, senza idee e proposte che parlino a loro, a un pezzo di Paese che tutte le analisi e le stime dimostrano essersi impoverito e precarizzato negli ultimi tre decenni e ancor più negli ultimi anni?

A quest’altezza si colloca la necessità di una legge sul salario minimo e, al contempo, di un intervento sulla rappresentanza sindacale.

La complementarietà tra le due esigenze è essenziale, soprattutto in un Paese come l’Italia in cui il sistema della contrattazione collettiva è per sua natura decisivo nella determinazione dei salari.

Da una parte, dunque, occorre un salario minimo (cioè un minimo di retribuzione, al netto di tredicesima, Tfr e contributi datoriali) che fissi una soglia sotto la quale gli accordi collettivi o i contratti privati non possono scendere, ma a partire dalla quale inizia la contrattazione. Dall’altra parte, e insieme, serve una legge sulla rappresentanza che contrasti la moltiplicazione parossistica dei contratti (siamo a oltre 900, molti dei quali pirata) e che rafforzi il valore erga omnes della contrattazione dei soggetti rappresentativi, che è di per sé la prima garanzia che i minimi già previsti dai CCNL diventino validi per tutti e non possano essere derogati insieme a tutti gli altri diritti (ferie, malattie, maternità, orari, eccetera).

La direttiva europea in discussione al Parlamento europeo – fondamentale, perché produce un salto di qualità importante dopo decenni in cui l’attenzione era stata posta a livello europeo (anche con la complicità delle forze del centro-sinistra) quasi esclusivamente sulla flessibilità salariale – va esattamente in questa direzione, sollecitando da un lato la definizione di criteri comuni affinché ogni paese abbia un salario equo; e dall’altro lato incoraggiando a estendere, aumentare, rendere più robusta la copertura della contrattazione collettiva.

Posto che è ormai assodato da una lunga serie di studi scientifici (non ultimo quello del Nobel David Card) che il salario minimo non fa aumentare la disoccupazione e che, al contrario, salari più elevati tendono a fare aumentare la produttività del lavoro, generando quindi un effetto benefico sull’intero ciclo produttivo, si tratta di quantificare il livello necessario e adeguato al nostro Paese. Diversi studi ipotizzano l’opportunità di un salario non inferiore al 65% del salario mediano. Se la politica non è fotografare l’esistente ma tracciare la direzione auspicata del movimento futuro, non c’è ragione perché la sinistra non proponga di stare sopra questa soglia. Al contempo, non c’è ragione perché la quantificazione a regime non sia consegnata al lavoro di una commissione nella quale i sindacati e quindi i lavoratori siano istituzionalmente protagonisti e non spettatori (simile, per intenderci, a quella Low Pay Commission incardinata da Blair alla fine degli anni Novanta).

Due riflessioni conclusive.

La prima è che fissare un livello di salario minimo, seppure in forma complementare al potenziamento della contrattazione, non è ancora sufficiente. Occorre volgere lo sguardo non soltanto al lavoro dipendente ma a una fascia ben più ampia di lavoratori (autonomi, parasubordinati, atipici, stagionali) che sono una quota parte importante di quel 12% di italiani che, pur lavorando, rimane sotto la soglia della povertà relativa. Considerando che, dentro quella fascia più ampia, c’è una componente femminile che non solo è la più penalizzata in assoluto (sia in termini di precarietà sia in termini di divario salariale di genere) ma è quella che dentro la crisi ha subito di più.

Occorre allora una strategia più ampia, che agisca sia direttamente sulla giungla dei contatti precari, sia sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, sia sul versante dei servizi pubblici (dagli asili nido alla scuola, dalla sanità ai servizi assistenziali alla persona nel suo complesso) sia, ancora, mettendo mano al sistema fiscale riducendo nell’immediato la tassazione sul lavoro dipendente e sui pensionati e introducendo, dentro una riforma vera e propria, un principio rigoroso di progressività sia sui redditi sia sui patrimoni.

La seconda, infine, è che se le proposte sono queste (o simili a queste), occorre uno strumento credibile per veicolarle. Penso sia compito della sinistra e di una coalizione progressista unita, che non può essere uno stato dello spirito ma – se vuole avere chances di successo – deve palesarsi e fare sentire la propria voce innanzitutto su questo terreno. Il lavoro – insieme al grande tema di cornice del ruolo del pubblico, dello Stato, della sua capacità di programmazione e pianificazione, di una politica industriale degna di questo nome a confronto con le sfide della transizione ecologica e digitale – è esattamente il crinale su cui si gioca la credibilità di una sinistra popolare e di governo qui e ora e anche nei prossimo futuro.