L’Italia dopo il 4 marzo. Documento per la conferenza politico organizzativa

Politica e Primo piano

Con le elezioni politiche del 4 marzo si è aperta una stagione completamente nuova nella storia della Repubblica italiana. Hanno vinto forze che, da punti di vista differenti, mettono profondamente in discussione i vincoli e le scelte adottate nel corso degli ultimi venticinque anni. Con questo risultato bisogna fare i conti, in maniera severa e autocritica, se abbiamo davvero la volontà di riprendere il cammino per ricostruire una sinistra politica nel nostro paese. Indagare le cause della vittoria dei Cinque Stelle e della Lega ci consente di combatterne le conseguenze. Rimuoverle come se fossero una parentesi destinata a durare poco e a schiantarsi, per via dell’inesperienza e dell’abuso di propaganda, sarebbe un errore clamoroso.

Abbiamo perso, dunque.

E in questo tornante la sinistra si è presentata nuda alla prova, incapace di leggere la marea che si alzava dalle viscere della società europea e italiana.

Qui la domanda di protezione ha prevalso su un’astratta retorica della libertà evidentemente incapace di coprire il progressivo svuotamento della democrazia rappresentativa e, per la maggioranza dei cittadini, la progressiva perdita di diritti e di servizi. In un contesto senza certezze hanno prevalso le forze che hanno fatto leva sulla diffidenza, sul rancore, sul  cinismo sociale.

La crisi economica che ha colpito il mondo ha lasciato ai margini della società italiana milioni di persone, raddoppiando in un decennio la disoccupazione, erodendo i risparmi di una parte rilevante del ceto medio, condannando una generazione alla precarietà, ridimensionando l’apparato produttivo del paese, allargando la forbice economica tra nord e sud, aggredendo la tenuta di servizi pubblici essenziali.

La crisi non è stata un evento meteorologico, l’economia di carta si è mangiata l’economia reale e la concentrazione di ricchezza nelle mani dei pochi è aumentata come mai si era visto nella storia recente dell’umanità.

Il voto del 4 marzo ha rappresentato dunque una sanzione collettiva al sistema politico che è apparso responsabile e incapace di difendere le prerogative dell’Italia, di tirarla fuori dal baratro.

Dieci anni fa i partiti cosiddetti “sistemici” avevano quasi l’ottanta per cento del consenso elettorale e segnavano un bipolarismo classico europeo che oggi è scomparso. Emergono forze anti-establishment che mettono avanti la critica radicale al processo di costruzione dell’eurozona e alimentano un rigurgito nazionalista che poco ha a che fare con la giusta e comprensibile richiesta di recupero della sovranità democratica sulle scelte fondamentali dell’economia e di autodeterminazione dei popoli, in primo luogo in ambito europeo. Si tratta di un consenso crescente che è figlio di un degrado profondo della politica e delle istituzioni. In tante realtà del paese anche il campo delle forze progressiste è apparso come il fronte dei protetti, della difesa di rendite elettorali sempre più fragili, delle clientele che chiudono la porta a giovani generazioni prive di padrini.

Emerge così una nuova questione morale che trova come unico sbocco un sentimento di vendetta, senza progetto e senza capacità di trasformazione dei rapporti sociali. 

Dunque, ci troviamo di fronte a un paesaggio politico profondamente cambiato: questo obbliga l’intera sinistra a un processo di rifondazione politica e culturale. Se non ci poniamo le domande giuste, le risposte saranno deboli.

Il tempo nuovo ci impone di coniugare bisogno di protezione sociale e società aperta, inclusiva, multiculturale.

Questa la bussola di chi ha intenzione di ripristinare il primato della politica di fronte a un capitalismo finanziario che detta i ritmi dell’economia e dunque della democrazia.

 

Il Contratto: il manifesto di una nuova destra

La nascita del Governo Conte è stata figlia di una lunga e travagliata crisi politica che – a causa di diffusi comportamenti irresponsabili – ha rischiato di coinvolgere il Presidente della Repubblica, trasformandosi in una crisi istituzionale senza precedenti.

La saldatura tra Salvini e Di Maio, che ha comportato lo sfaldamento della coalizione di centrodestra presentatasi in modo unitario davanti agli elettori, apre indubbiamente un ciclo politico nuovo, animato da formazioni profondamente radicate nella realtà italiana, ma non è detto che apra anche un ciclo di governo.

Troppe sono le spinte, ancora in campo, che impongono prudenza nel dichiarare il quadro di governo stabilizzato.

Tuttavia, il segno prevalente di questa inedita maggioranza gialloverde sembra essere quello della nuova Lega lepenista, capace di egemonizzare sul terreno dei contenuti e degli slogan l’intera area di governo.

Lo dicono i risultati elettorali delle amministrative e regionali più recenti, lo dicono anche gli assetti di governo, dove il Viminale diventa il crocevia delle iniziative politiche principali della nuova compagine, trasformandosi nel megafono propagandistico di una forza politica e nel monopolista della comunicazione governativa.

Ha fatto molto discutere nella fase precedente alla formazione del Governo Conte la mancata nomina da parte del Presidente Mattarella del Professor Paolo Savona alla guida del dicastero dell’Economia. In quel frangente è emerso l’avventurismo istituzionale di una maggioranza che ha messo in discussione le prerogative costituzionali del Quirinale, fino a minacciare addirittura la messa in stato d’accusa del Capo dello Stato, salvo fare repentinamente marcia indietro. Minaccia rientrata rapidamente e conclusasi con la nascita dell’esecutivo Conte, ma che in qualche modo si è caratterizzata come una sorta di “stress test” ai danni di un’architettura istituzionale dove la divisione dei poteri non consente di ridurre il Presidente della Repubblica a un semplice passacarte. Viene fuori, anche per la centralità rivestita da un Contratto privato stipulato tra due leader politici, la natura profondamente a-costituzionale di questa alleanza dove il Presidente del Consiglio appare come un mero esecutore di intese prese altrove.

È sbagliato sottovalutare l’impatto dello spread, che oggi torna a salire. Non è un artificio della borsa, ma ha conseguenze reali sui mutui e sui risparmi degli italiani. Ma oggi dovrebbe allarmarci altrettanto lo spread dei diritti umani. La sinistra deve preoccuparsi di questo, non solo dei mercati.

Scrive Federico Rampini: “Com’è accaduto che lo spread Btp-Bund sia diventato la Linea Maginot dietro la quale la sinistra italiana è asserragliata, il baluardo a cui si aggrappa in questa tempesta istituzionale? È normale che lo slogan dei progressisti sia ‘attenti al giudizio dei mercati’? Rifiutare il piano B dell’uscita dall’euro, significa sdraiarsi sull’austerity germanica? Proprio quella che abbiamo criticato per anni?”. Queste domande sono ancora tutte sul tappeto e richiamano la necessità di una sinistra autonoma capace di proporre una risposta alternativa alla crisi democratica che attraversa l’eurozona.

Eppure la saldatura tra M5S e Lega poteva essere evitata. Si poteva impedire che i due populismi si sommassero in un contratto che rappresenta oggi il manifesto di una nuova destra.

L’anima di questo governo si muove attorno a due assi fondamentali: l’ossessione propagandistica sulla questione migranti e un’impostazione economica liberalpopulista.

Le misure di chiusura all’immigrazione sono sulla scia del gruppo di Visegrad e delle forze che rappresentano i nuovi nazionalismi nel resto dell’Europa. Alimentano odio sociale e razziale e producono una deriva securitaria senza precedenti.

Sull’economia la Flat tax rappresenta la fine definitiva di una qualsiasi idea di progressività fiscale e il sostegno ai ceti più abbienti che hanno pagato meno il prezzo della crisi. Si aiutano i miliardari con il voto dei poveri: una curiosa e inedita eterogenesi dei fini.

Ma non era scritto che finisse così. La responsabilità di non aver impedito questa alleanza pericolosa sta anche in capo a chi non ha voluto sedersi al tavolo con i Cinque stelle e discutere un accordo di governo diverso per far partire la legislatura.

Separare il proprio destino di partito dal destino complessivo di una nazione mette in discussione i capisaldi della cultura politica della sinistra degli ultimi settant’anni.

Il tanto peggio tanto meglio non ha mai prodotto esiti positivi per il paese e per i ceti più deboli, ma ha al contrario rafforzato le ragioni dell’avversario, gli ha consegnato le chiavi di un’egemonia che rischia di essere duratura nel tempo.

 

Opposizione per costruire l’alternativa

Si apre dunque per la sinistra tutta una nuova stagione di opposizione parlamentare, sociale e politica nel paese. Dobbiamo ripartire dai nodi che abbiamo affrontato negli ultimi anni e che restano tutti sul tappeto: qualità e dignità del lavoro, ricostruzione del welfare, centralità del diritto allo studio.

Le politiche dei tagli e della riduzione dei diritti hanno alimentato l’insicurezza sociale e hanno contribuito a produrre la crescita dei movimenti xenofobi e populisti. Serve dunque una svolta radicale che impegni i progressisti a rimettere al centro la questione sociale e archiviare definitivamente le politiche neoliberiste che hanno influenzato anche la lunga stagione della Terza via.

Il Contratto di governo segnala una via d’uscita da questa crisi a destra.

Il sodalizio tra Flat tax e reddito di cittadinanza rischia di essere uno specchietto per le allodole: sgravi ai ricchi senza precedenti e un po’ di quattrini ai più poveri per non disturbare il manovratore ed eliminare il conflitto sociale.

La tassazione progressiva sui redditi al momento ancora esiste e va difesa, mentre va introdotta sui patrimoni e sulle successioni. Il gettito derivante da una imposta di equità e da quella di successione deve essere destinato a investimenti, prevedendo una quota a favore degli enti territoriali per reinvestire in parte quelle risorse a favore della comunità che le ha create.

Occorre chiudere la stagione dei condoni fiscali e porsi l’obiettivo di una progressiva abolizione del contante.

Perché non esiste giustizia sociale senza giustizia fiscale.

Parliamo dei capisaldi su cui si regge la democrazia costituzionale in Occidente. Se si rompe il patto fiscale tra nord e sud del paese, tra chi ha di più e chi ha di meno, la stessa tenuta sociale e democratica dell’Italia viene meno.

Al contempo, è il lavoro che perde centralità: il cuore del Jobs act, che ha aumentato la precarietà e ridimensionato il potere contrattuale di chi lavora attraverso l’abolizione dell’articolo 18, non viene messo in discussione. Addirittura si parla di ripristino integrale dei voucher e si continua con la linea della disintermediazione, riducendo le organizzazioni sindacali a interlocutore secondario e irrilevante.

Persino sulla riforma della Legge Fornero siamo ancora agli annunci. Nessun tavolo con i sindacati è stato ancora convocato. Sconcerta infine il silenzio sulla vera e propria strage che si è consumata in questi mesi sui luoghi di lavoro, con un aumento vertiginoso delle morti, nel silenzio delle forze di governo.

Torna il nodo cruciale di questi anni: il lavoro si crea con gli investimenti e non con i bonus, con un piano nazionale di risanamento del territorio e la sfida della Green economy, con l’immissione di giovani generazioni in una pubblica amministrazione ormai vecchia e sclerotizzata, con la scommessa dell’innovazione e della ricerca scientifica.

Qui c’è bisogno di una discontinuità radicale con le ricette portate avanti negli ultimi cinque anni dai governi a guida Pd.

Di fronte a processi di trasformazione profonda del lavoro e dell’apparato produttivo, una sinistra moderna deve individuare nella diminuzione e redistribuzione dell’orario di lavoro a parità di salario e nella sfida del lavoro di cittadinanza una strada da sperimentare con coraggio.

Perché l’emancipazione degli individui passa attraverso la la qualità, la libertà e la stabilità del lavoro.

Alla domanda di protezione sociale che viene avanti si risponde con il potenziamento dei servizi da parte degli enti locali – prima vittima della stagione dell’austerity – e con il sostegno alla sanità pubblica attraverso le regioni: è necessario riallineare la spesa sanitaria con la media dell’eurozona, dopo anni di tagli lineari, e va riformato il meccanismo del riparto della spesa tra regioni, particolarmente penalizzante per il Sud.

Sul piano dei diritti civili viene avanti una visione arretrata e arcaica che mette sul banco degli imputati il ruolo delle donne, con una visione patriarcale dei rapporti sociali che sfocia nella minaccia alla 194 e nella negazione dell’uguaglianza tra i generi.

Nasce dunque l’esecutivo più maschile della storia recente.

Al contempo, le polemiche del Ministro della Famiglia sulle famiglie arcobaleno appaiono un segnale di minaccia chiaro a nuovi diritti che non possono essere messi in discussione.

La bandiera dello Ius soli non va ammainata, anzi va rilanciata perché è una chiave decisiva per un’integrazione effettiva e responsabile.

L’opposizione non si fa aspettando che il cadavere passi, attendendo gli errori dell’avversario, ma lanciando proposte, sfidando sul merito delle singole questioni, incalzando sulle proposte, promuovendo iniziative che allarghino il fronte a forze civili e sociali.

Non abbiamo intenzione di arruolarci dentro ipotetici fronti repubblicani privi di radici culturali omogenee e accomunati esclusivamente dal ripudio di questo schieramento di governo.

Noi pensiamo che questa compagine di governo nasca anche a causa degli errori accumulati nel tempo da chi ha governato questo paese senza vedere in faccia la crescita delle destre e dei populisti, scegliendo di inseguirli sullo stesso terreno e lasciando il campo democratico sguarnito di valori e di cultura politica.

Se la sinistra scimmiotta la destra, gli elettori scelgono sempre l’originale.

Nessuno crede che il nostro deludente 3,4 per cento basti a fermare da solo questa ondata regressiva, ma ogni richiamo all’unità ha senso solo se la premessa è il cambiamento.

Non chiediamo abiure, ma non è immaginabile che si provi a battere la destra sdoganando altri pezzi di destra ipoteticamente più presentabili. E magari dividendo il campo tra apocalittici e integrati, antisistemici e sistemici, eurocritici ed euroentusiasti. Se l’opposizione si riduce a questo, l’attuale alleanza di governo rischia di trasformarsi in un’alleanza strutturale, destinata a durare negli anni e governare a lungo questo paese.

Questa è la proposta che lanciamo all’intero campo democratico e di sinistra, ai partiti, alle associazioni, alle forze vive della società: lavorare alla costruzione dell’alternativa passa per una proposta di governo che metta al centro la giustizia sociale e il risanamento morale.

Questa è la missione fondamentale per cui LeU è nata e che oggi va assunta con rinnovato coraggio se non vuole condannarsi all’irrilevanza: autonomi, ma mai autosufficienti.

Occorre dunque un nuovo orizzonte progressista che tragga lezione anche da quelle sinistre che in Grecia, Spagna, Portogallo, Gran Bretagna provano a trovare vie d’uscita alla crisi senza cedere culturalmente alle ragioni dell’avversario.

 

Crisi del multilateralismo, la necessità di una riforma dell’Eurozona

L’epicentro della crisi sembra oggi essere l’Europa. Dopo il fallimento della fase costituente, l’Eurozona si presenta sempre più come una sommatoria di pulsioni nazionaliste, certo di diverso tenore e di diversa aggressività. Sta di fatto che è il combinato tra gli interessi  economici tedeschi, lo sciovinismo neo coloniale francese, il nazionalismo xenofobo del gruppo di Visegrad a rendere pressoché irriconoscibile il progetto originario europeo.

Così l’Europa che trovava la sua profonda ragione d’essere nella crisi irreversibile degli stati nazionali, nelle politiche di coesione, nella costruzione di una nuova identità, finisce per alimentare chi illude i popoli che sia possibile tornare a forme di isolazionismo. E quando questo si rivelerà impraticabile, l’aggressività che si sarà accumulata potrebbe trovare sbocchi imprevedibili. L’anno scorso, secondo il rapporto annuale del SIPRI, l’export di armamenti è cresciuto in media più che negli ultimi cinque anni, ai livelli più alti dalla fine del confronto tra la Nato e il Patto di Varsavia, insomma dalla fine della Guerra Fredda.

D’altra parte, l’esito del G7 di giugno in Canada ci consegna la crisi sempre più grave degli organismi informali multilaterali. L’Onu stessa è paralizzata e la NATO diventa sempre più periferica, visto il progressivo disimpegno degli americani dai teatri più caldi del Mediterraneo. Gli Usa di Trump hanno sostanzialmente deciso che  un’epoca è finita, ripiegando su relazioni muscolari tra singoli paesi e puntando a ridimensionare l’anomalia europea. La scelta dei dazi chiude definitivamente la stagione del Free trade e di una visione ottimistica della globalizzazione fondata su un’idea di crescita equilibrata dei mercati. Il ripiegamento del modello globalista era evidente già da anni, comprese le iniquità spaventose che determinava, ma la risposta della destra mondiale rischia di essere un rimedio peggiore del male.

La nuova destra mondiale, da Putin ad Erdogan, da Netanyahu a Trump, si colloca su questo crinale: gli organismi multilaterali ridotti a scatole vuote e senza potere, la logica della forza che prevale sulla funzione della diplomazia, il nazionalismo e la politica del capro espiatorio come arma di distrazione di massa.

Le forze di sinistra e progressiste appaiono completamente incapaci di contrapporre un alfabeto all’altezza di questa rivoluzione neoconservatrice. Sradicate dagli insediamenti popolari, sconfitte dalla rivoluzione tecnologica, incapaci di ripensare un nuovo compromesso sociale che ridimensioni la finanza e restituisca peso politico al lavoro.

Non ha funzionato una visione ingenua e fideistica del processo di unificazione europeo, che nel lungo periodo, da straordinaria narrazione di un tempo nuovo, ha provocato un’epidemia di nostalgia che ha infettato nazioni dalla tradizione democratica solida.

Brexit, Visegrad, governo gialloverde, pur nelle loro diversità, non nascono a caso.

Serve dunque un nuovo europeismo che metta al centro la dimensione democratica e sociale, laddove fino ad oggi tutto è stato prevalentemente moneta e parametri. La sinistra europea, nelle sue varie articolazioni, deve farsi promotrice di una riforma seria dei Trattati, con la trasformazione della Bce in prestatrice di ultima istanza, eliminando dal calcolo del deficit gli investimenti strategici, restituendo poteri veri al Parlamento europeo, superando la dimensione intergovernativa degli organismi di governo dell’Ue.

Occorre costruire dunque una sovranità democratica europea, altrimenti inevitabile sarà la spinta verso la ripresa di egoismi nazionali e regionali.

Ma come diceva Gramsci troppo forte è lo scarto tra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica: tornare indietro al vecchio Stato nazionale, alimentare nuovi secessionismi sulla base del sangue e della lingua, recuperare la retorica dei confini e delle frontiere aggraverebbe la crisi in atto.

Serve dunque una sinistra che assuma il paradigma della sovranità democratica in sede europea e che ricostruisca una cittadinanza europea solidale.

Questo passa attraverso scelte radicali: da un audit continentale sul debito che grava sui paesi del sud all’assunzione del parametro della piena occupazione accanto al parametro della stabilità monetaria, da una misura che riduca il ricorso alle delocalizzazioni interne all’eurozona come arma di dumping sociale per le imprese alla necessità di una gestione condivisa dei flussi migratori.

Le guerre e il terrorismo hanno diviso la società europea, gli egoismi nazionali ne hanno ridotto il peso politico nel mondo, la debolezza politica l’ha allontanata dalla funzione di strumento di mediazione nei conflitti, a partire dal Medio Oriente. Una crisi paragonabile agli anni Trenta ha trasformato il paesaggio sociale e produttivo, ha impoverito la classe media che ha girato la testa a destra, ha fatto crescere nella pancia di milioni di cittadini la paura verso la diversità e l’apporto di altre culture, ha disseminato vecchi e nuovi germi di fascismo e di autoritarismo.

L’immigrazione, da opportunità di crescita, è diventata l’oggetto di campagne forsennate della destra nazionalista che ha trovato terreno fertile in un tessuto sociale indebolito da un lavoro sempre più frammentato e sottopagato. Eppure l’immigrazione è un fenomeno strutturale del nostro tempo (nel 2017 secondo l’Unhcr sono 68 milioni gli esseri umani che migrano), non può essere trattata alla stregua di un’emergenza.

Questi ingredienti hanno prodotto per la prima volta il divorzio tra liberalismo e democrazia, spingendo sempre di più società complesse come quelle europee a ispirarsi a nuovi modelli di “democratura”, sempre più orientate ad est.

Il controllo dell’informazione, la riduzione dello spazio parlamentare, la domanda di leadership carismatiche, la sintesi tra liberismo economico e populismo sociale sono gli sbocchi naturali di questa mutazione genetica delle democrazie occidentali. E l’Italia appare per l’ennesima volta un laboratorio all’avanguardia dopo la lunga stagione berlusconiana. Occorre dunque una nuova ricerca, un nuovo sforzo politico e intellettuale che restituisca al campo distrutto della sinistra italiana una vocazione euromediterranea.

Abbiamo intenzione di promuovere una discussione senza rete, a iniziare dalla famiglia del socialismo europeo di cui ci sentiamo parte e in cui militano in nostri europarlamentari, con tutte le forze di sinistra ed ecologiste che vogliono una riforma dell’Europa, che non si rassegnano alla logica delle grandi coalizioni o del “macronismo” oltre la destra e oltre la sinistra, che intendono contrastare senza sconti l’onda neonazionalista e xenofoba.

Serve una proposta larga, plurale e innovativa della sinistra per le elezioni europee del 2019.

 

Articolo Uno, una forza ecologista e socialista verso il Partito della sinistra e del lavoro

Quello del 4 marzo è un voto che cambia completamente la geografia politica del Paese, che chiude un intero ciclo della sinistra, sia di quella riformista che di quella radicale, e una fase della storia dell’Italia, quella della cosiddetta “seconda Repubblica”. L’avventura renziana viene liquidata da un fallimento ancora più clamoroso di quello del referendum costituzionale, ma il tentativo di costruire a sinistra un’alternativa forte e credibile allo snaturamento del Pd subisce una battuta d’arresto pesante.

Il risultato di Liberi e Uguali è stato molto al di sotto delle ambizioni politiche ed elettorali iniziali.

La gran parte del voto in uscita dal Pd è finito al M5S o nell’astensione. Qualsiasi tentativo di minimizzare o di non fare i conti fino in fondo con il messaggio che gli elettori hanno mandato si rivelerebbe un errore ancora più grave di quelli che hanno portato a questo esito. Quando c’è un risultato così negativo, le cause sono molteplici e l’analisi non può essere semplificata.

I gruppi dirigenti devono naturalmente assumersi fino in fondo le proprie responsabilità e favorire l’apertura di una discussione profonda e senza reti, coinvolgendo tutte le energie che hanno creduto nel progetto di Liberi e Uguali e lo hanno sostenuto con passione in campagna elettorale.

Questo capitale di passione e di intelligenza politica diffusa sul territorio è la prima cosa di cui aver cura nella fase costituente che adesso deve partire.

Immaginare un rompete le righe sarebbe esiziale: la sinistra perde anche quando non offre alcuna solidità nelle sue iniziative, nelle sue battaglie.

Occorre costruire un soggetto politico che investa con decisione sulla sua identità, sulla sua visione di società, su un nuovo radicamento sociale, e che faccia di questo il suo tratto qualificante, segnando una netta discontinuità rispetto a esperienze segnate da identità politico-culturali labili e perciò condannate a essere caratterizzate solo dall’accettazione o dal rifiuto delle alleanze locali o nazionali.

Serve un partito ecologista e socialista, che metta il lavoro, vecchio e nuovo, al centro della sua iniziativa e cultura politica e che abbia l’obiettivo di riportare la sinistra al governo del Paese.

Lavorare alla ricomposizione del mondo del lavoro è la strada principale per rimettere in piedi un convincente progetto riformatore. La crisi e i prezzi in termini di vasto disagio sociale che essa ha procurato, in maniera ancora forte e visibile, sono l’esito di un lungo ciclo neoliberista che, in Europa, si è intrecciato ai parametri restrittivi dell’austerità.

Dovremo dare “carne e sangue” a una moderna critica del capitalismo, dei processi attuali di accumulazione – sempre più volti a concentrare la ricchezza finanziaria in poche mani, saldando finanziarizzazione, bassa retribuzione della forza-lavoro e sfruttamento dell’ecosistema – senza avere timore di affrontare tutto il peso della pluridecennale egemonia liberale.

Un’egemonia che sembra essersi tradotta persino in una nuova antropologia. Parliamo di quella spinta delle classi dominanti sovranazionali che, dalla fine degli anni ‘70 del secolo scorso in poi, dopo un ciclo di conquiste di massa sul piano del potere sociale, ha puntato tutto sull’estinzione del ruolo politico dei grandi strumenti di partecipazione e mediazione democratico-collettiva – dai partiti, alla funzione civile degli intellettuali, al sindacato – per sostituirvi un nuovo “senso comune” centrato sull’ideologia dell’autosufficienza del mercato e sull’impossibilità di un’alternativa.

Torna il tema della lotta per la salvaguardia di beni comuni da sottrarre al mercato: dal diritto alla mobilità sostenibile a quello alla salute fino al diritto alla conoscenza delle informazioni e dei dati attraverso uno “statuto pubblico dell’algoritmo” come condizione essenziale per la trasparenza delle forme, delle procedure e dei connotati della nostra democrazia. Una nuova forza della sinistra e del lavoro o si colloca dentro questa temperie storica o semplicemente non ha funzione. Deve farsi rete attraverso la rete, rovesciando la logica autoritaria delle piattaforme digitali che progressivamente si sono trasformate in opachi strumenti di comando, paralleli e complementari ai partiti leaderistici.

Serve una piattaforma della democrazia digitale a sinistra che consenta la costruzione di una comunità intellettuale cui devolvere orientamenti e spazi comuni di discussione e iniziativa politica. Deve farsi società, esempio sul territorio, “pellegrino tra i pellegrini” rimodulando una nuova trama di moderni luoghi del mutualismo laddove il conflitto sociale diventa più aspro e il disagio non trova alcuna risposta di prossimità.

 

 

Per essere all’altezza di queste sfide, il 26 maggio abbiamo stabilito un percorso di lavoro che deve esaurirsi entro l’anno, al termine del quale i soggetti che hanno contratto il patto costitutivo di Liberi e Uguali devolvano integralmente la propria sovranità al nuovo partito.

LeU non come fine in sé, ma come primo passo per ricostruire un orizzonte progressista nel nostro Paese.

Dovremo coinvolgere iscritti e militanti, ma anche un tessuto civico e associativo che nel nostro paese continua ad animare grandi battaglie civili.

Un congresso fondativo, basato sul principio inderogabile di “una testa, un voto” che chiuda la stagione pattizia tra le forze politiche fondatrici.

Noi ci crediamo, Articolo Uno è nato per dare un tetto, una casa, un’occasione di militanza e partecipazione a migliaia di donne e uomini che non si riconoscevano più nelle forze tradizionali della sinistra.

Non possiamo dire che la missione è compiuta: c’è lavoro, sudore, fatica, generosità da mettere ancora in campo.

L’esperienza del nostro movimento la mettiamo a disposizione di questo percorso, con la sua originalità, il suo pluralismo e il suo radicamento territoriale.

La sfida è ancora quella: una sinistra autonoma che ricostruisca lo spazio dell’alternativa di governo.

Alternativa di governo significa innanzitutto porsi l’obiettivo storico di riunificare ciò che la crisi ha diviso e frantumato ovvero il lavoro, il welfare, il territorio.

Alternativa di governo significa archiviare definitivamente la stagione del partito pigliatutto e dell’idea di un riformismo dall’alto che ha fallito in tutta Europa.

Alternativa di governo significa restituire alle giovani generazioni libertà e stabilità di vita, sottraendole al paradigma della paura che sta prevalendo la nostra società, che ha origine nella precarizzazione totale delle relazioni sociali e produttive.

Alternativa di governo significa rispondere alla domanda di riforma della politica che non può essere lasciata nelle mani dei populisti: piena attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, una legislazione moderna sui conflitti di interesse e sul finanziamento della politica, sobrietà nei costi della democrazia, rafforzamento di strumenti di democrazia diretta sulle scelte fondamentali della vita delle persone.

Ci candidiamo a essere il motore della ricostruzione di un progetto ampio e popolare, che ha come bussola fondamentale il dispiegamento del dettato della Costituzione repubblicana.

Oggi più che mai c’è bisogno di riprendere quel cammino.

 

 

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