Il tempo è nostro, prendiamocelo: la relazione di Scotto. #Ricostruzione

Politica e Primo piano
Care compagne e compagni, è trascorso quasi un anno dalla sconfitta del 4 marzo. Sembra un secolo. Il primo governo nazionalpopulista dell’Europa occidentale. Un Ministro che via tweet sequestra su una nave della Guardia Costiera 140 migranti per cinque giorni. Un paese amico come la Francia che ritira il proprio ambasciatore inaugurando la prima crisi diplomatica di oltralpe dal 1940 ad oggi. L’aula del Parlamento europeo vuota davanti al capo del governo italiano. Un Senato che mette in discussione la conquista del divorzio, un Ministero della Pubblica Istruzione che introduce un corso di esorcismo per i professori, un Ministro della Famiglia che annuncia l’eliminazione della modica quantità che manderà i ragazzi di 14 anni in galera per un canna, i giornalisti dell’Espresso picchiati a sangue da squadracce neofasciste nel centro di Roma. La divisa della polizia che viene sfregiata nei comizi della Lega come negli incontri istituzionali: il vessillo da esibire per affermare “lo Stato sono io”.
Un anno in cui Salvini si è mangiato Di Maio e ha portato il Carroccio quasi al 30 per cento in una regione del Sud come l’Abruzzo. Un anno in cui la sinistra e il centrosinistra sono riusciti a perdere tutto quello che c’era da perdere senza fermarsi un attimo a ragionare sul perché.
Vedo che qualcuno – nel tentativo maldestro di esercitarsi con la letteratura minore – comincia a interrogarsi su un’altra strada – e forse un altro lido – precisando che a lui l’autocritica di rito comunista proprio non va giù. Non chiediamo né autocritiche di rito comunista né pentimenti di stretta osservanza cattolica, ma non mi risulta che il Capitale di Marx o il Vangelo secondo Matteo – né quello giusto né quello sbagliato, piuttosto quello vero – contempli la rimozione totale della sconfitta come linea politica!
Ce lo dice il mondo, attraversato da fratture estremamente pericolose, inedite, per molti aspetti inquietanti. Da Mosca a Washington, da Budapest a Brasilia, da Tel Aviv a Roma, da Manila ad Ankara. Ce lo dice la notizia incredibile, quasi clandestina sulla stampa italiana ammalata di retroscenismo posticcio, della rottura del trattato Inf sulla riduzione delle testate nucleari a medio raggio firmato da Gorbaciov e Reagan nel 1987. Fu un tornante storico, la fine di quell’incubo nucleare che aveva condizionato la vita quotidiana di milioni di persone all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale e di Hiroshima e Nagasaki.
La bomba atomica aveva dettato per decenni alla specie umana il ritmo della sua possibile estinzione. Il brivido dell’Olocausto nucleare. nUna generazione organizzava la sua vita politica, culturale, religiosa attorno al rischio che le armi di distruzione di massa fossero qualcosa di più dell’ironica e inquietante sceneggiatura dei dottor Stranamore in giro per il mondo. Palmiro Togliatti a Bergamo interloquiva con l’enciclica Pacem in Terris di Papa Giovanni XIII e si interrogava sul “destino dell’uomo” di fronte al precipizio di una guerra termonucleare. Sentite queste poche scarne parole: “Eccoci così di fronte alla terribile, spaventosa “novità”; l’uomo, oggi, non può più soltanto, come nel passato, uccidere, distruggere altri uomini. L’uomo può uccidere, può annientare l’umanità. Mai ci si era trovati di fronte a questo problema, se non nella fantasia accesa di poeti, profeti e visionari. Oggi questa è una realtà. L’uomo ha davanti a sé un abisso nuovo, tremendo».
Inquietudine, allarme, paura. Sembra pronunciata oggi, dove il destino della specie umana si intreccia nuovamente con la follia della guerra, del suicidio di una società, quella occidentale, che sta vivendo il millennio di troppo e che a passi spinti finisce nel burrone di un nazionalismo che porta conflitto, separazione, morte. Nessun catastrofismo, nessuna visione apocalittica. Ma guardiamo il mondo oggi, con obiettività, dopo la fine della lunga crisi. La diplomazia segna il passo, il commercio di armi letali non e’ mai stato così florido, processi di pace che apparivano destinati a stabilizzarsi come quello mediorientale si sono definitivamente arenati nel silenzio della comunita’ internazionali, la conferenza sul Clima di Parigi che appariva come la decisiva presa di consapevolezza sui limiti dello sviluppo viene cancellata con un tratto di penna da Trump che addirittura inneggia al “Global Warming”di fronte alla gelata di Chicago.
C’è una lotta senza quartiere per le ultime risorse disponibili, dal petrolio all’acqua fino alle terre rare, che porteranno turbolenze permanenti e i cui effetti sono tutt’altro che prevedibili.
Abbiamo assistito ad uno scambio tacito tra sicurezza e democrazia che ha cambiato la trama della convivenza, condannandoci allo spavento e alla chiusura, al provincialismo, alla cattiveria. Il terrorismo islamista ha perso la battaglia della statualità, ma continua a mietere consensi dentro territori disperati, dove convivono analfabetismo, disoccupazione, fame, comportamenti patriarcali e maschilisti. E attraverso un messaggio salvifico concorre a una ricostruzione di senso nelle enormi periferie del pianeta secolarizzate e consumistiche. A modo suo, riempie un vuoto. Chi ha detto che il XXI secolo era il secolo della fine delle ideologie, della storia piuttosto che dei conflitti deve aver bevuto qualche bicchiere di troppo. Chi comanda il mondo? Se noi non sciogliamo questa domanda, se non andiamo al nocciolo essenziale della questione, non avremo una chiave di lettura solida di quanto sta avvenendo, di quali rapporti di forza segnano in maniera gigantesca la nostra vita e il nostro futuro.
Il divorzio della democrazia dal benessere è il primo tema. Esercizio democratico del diritto di voto e miglioramento delle condizioni materiali di vita non viaggiano più  insieme. È la trappola della sovranità limitata. D’altra parte non è un mistero che il paese che continua ad avere i tassi di crescita più alti del mondo sia guidato dalla dittatura di un partito solo. È la crisi del potere della politica che oggi sbarra la strada alla sinistra. Non è il destino cinico e baro che produce le cianfrusaglie nazionalpopuliste che infettano l’Europa e larga parte del mondo: nascono dal neoliberismo che ha divorziato con la democrazia. Sono le ricchezze enormi accumulate nelle mani di pochi che hanno creato società sfasate, impoverite culturalmente e dilaniate socialmente. Incapaci di progettare il futuro. Insomma, la destra liberista ha creato le condizioni per il patatrac, la destra della protezione si candida a difenderne le vittime. La sinistra fuori gioco quasi ovunque oppure maledettamente subalterna. Individuare chi comanda significa anche individuare gli avversari. La sinistra che non ha avversari si limita – passatemi la citazione del poeta – solo a “dare buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio”.
Non è un gioco di ruolo, è il motivo per cui stai al mondo e ti chiami sinistra. Perché nasci per una insopprimibile aspirazione all’eguaglianza. Se restringi la sinistra dentro un campo di compatibilità, di conservazione dello status quo, nel ruolo comodo di dispensatore del buon senso, finisci per essere irrilevante, persino fastidioso. O la sinistra riesce ad intestarsi di nuovo il rischio della trasformazione radicale del sistema oppure non ha senso, diventa uno scarto del “mainstream”. Nell’Italia del Governo Gialloverde oggi appariamo niente più e niente meno che i benpensanti che consigliano ai cattivi di essere meno cattivi. Nessuna idea di trasformazione del messaggio dell’opposizione è emersa in questi mesi.
Eppure la materia c’è. Dalle scelte economiche al federalismo differenziato, ai diritti civili fino alla politica estera. La scossa ci è venuta dai sindacati che unitariamente sono scesi in piazza il 9 febbraio scorso e hanno costruito la prima grande manifestazione per cambiare la politica economica del governo. In quella piattaforma ci sono le ragioni per cui esistiamo, per cui siamo ancora in campo, per cui abbiamo testardamente voluto chiamarci Articolo Uno. In Italia chi vive del proprio lavoro oggi ha meno diritti ed è più povero rispetto a qualche anno fa.
Bassi salari, precarietà diffusa, assenza di investimenti pubblici hanno indebolito il ceto medio e lo hanno spinto nelle braccia dell’illusione populista. Aver certificato anche a sinistra l’inutilità dei corpi intermedi ha fatto salire la temperatura a tal punto che un intero blocco sociale sfarinato e indebolito ha guardato altrove, a un’offerta politica diversa. L’assenza in Italia di una forza politica che si carichi sulle spalle il tema della rappresentanza del lavoro apre un grande vuoto nella democrazia italiana, la rende più fragile ed esposta ad avventure autoritarie. Quando il lavoro è uscito dall’agenda politica, sostituito dalle polemiche sulla casta, dalle rottamazioni democratiche o populiste, dal razzismo xenofobo e dalla retorica della sicurezza, la sinistra si è persa. Non ripartiamo se non assumiamo fino in fondo questo tema.
Che si traduce nella semplice e banale constatazione che una qualsiasi forma di vita a sinistra esiste se ha come obiettivo principale quello di rendere il lavoro stabile e ben retribuito, che bisogna lavorare di meno ma tutti devono lavorare, che il nostro obiettivo resta la piena e buona occupazione. Questa manovra non restituisce un euro al lavoro, non ha in testa un’idea di sviluppo del paese, non investe sulla conoscenza e l’innovazione come carta decisiva per la crescita equa e sostenibile dell’Italia. Addirittura taglia i fondi sulla sicurezza del lavoro in un paese dove ogni giorno in un cantiere edile piuttosto che in una fabbrica metalmeccanica muore un operaio. Vergogna! Sosteniamo la proposta dei sindacati di introdurre il reato di omicidio sul lavoro nel Codice penale. Scrive il nostro Gigi Agostini nel saggio “Neosocialismo” che: “L’algoritmo è destinato a diventare uno spartiacque nella vicenda storica del lavoro, nella sua organizzazione e nella sua potenza politica e sociale”. E ad abbattere persino le barriere tra lavoro salariato e autonomo, nella divisione internazionale della fatica, del sudore, delle braccia e del cervello. Torna in maniera decisiva il tema della quantità di alienazione che si annida nel lavoro intellettuale, che da vettore di liberazione viene ridimensionato nella sua qualità, nella sua fantasia, nella sua creatività dalla potenza dei calcolatori.
L’intelligenza artificiale sostituisce il corpo e delinea persino una dittatura dell’anima.
Occorre un nuovo compromesso con la rivoluzione tecnologica: è la sfida di una sinistra politica e sindacale che riconosce che lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo è ancora la cruna dell’ago attraverso cui passa la storia. Ma la storia cambia: ha bisogno di una nuova filiera della emancipazione che protegga il lavoro in tutte le sue forme da un capitalismo che divorzia dalla produzione.
Significa mettere le braghe al mondo? Significa delineare una società 5.0 – come la Cgil ci descrive nel congresso di Bari – dove la cultura della cooperazione si sostituisca alla competizione, dove alcuni beni comuni siano definitivamente sottratti alla logica del mercato: salute e scuola, acqua e previdenza. E dove misure di protezione universali non vengano viste come “una vita in vacanza” da chi si dichiara di sinistra. È davvero singolare che chi attacca con più virulenza il reddito di cittadinanza, sicuramente inadeguato e distorsivo, perché la priorità è il lavoro sia esattamente chi ha dato una spallata decisiva allo Statuto dei lavoratori e precarizzato tutto quello che restava da precarizzare, compresi gli ammortizzatori sociali!
Occorre invece impugnare la bandiera di un nuovo Statuto del Lavoro che cambia, quella Carta Universale dei Diritti che il Parlamento del cosiddetto Governo del Cambiamento, dei fautori della democrazia diretta, ha il dovere di calendarizzare e discutere. Perché ci sono tre milioni di firme in calce raccolte dal sindacato. Perché quei lavoratori hanno diritto a una risposta dalla politica!
Sappiamo che il reddito di cittadinanza così come è non funzionerà. Intanto perché la montagna ha partorito il topolino rispetto ai miliardi promessi e perché appare sempre di più una gara di triathlon tra divieti, tetti, navigator e penalità. Viene persino avanti una subcultura pericolosa secondo cui la povertà è una colpa e chi percepisce il reddito deve rigare dritto e spendere i soldi come dice la Piattaforma Rousseau. Un’idea di stato paternalista e reazionaria. Occorreva invece una manovra che aggredisse davvero la povertà, ripartendo dal Rei, intervenendo sulla casa, sui servizi, sui trasporti, sul lavoro di cura, mettendoci finalmente un po’ più di quattrini insieme a una politica di investimenti pubblici che rilanciasse la domanda, a partire da quel Green New Deal di cui questo paese ha bisogno. Siamo un paese bloccato da mesi intorno a una guerra di religione tra Lega e Cinque Stelle sulla Tav, persino con pericolose conseguenze diplomatiche, quando sulle dieci linee fragili delineate da Legambiente – dalla Brescia-Casalmaggiore-Parma alla Circumvesuviana, dalla Roma Lido alla Agrigento-Palermo – quelle dei pendolari di tutti i giorni che vanno a lavorare, nemmeno questo governo ci mette una lira come quelli precedenti.
Non è benaltrismo, è la realtà di questo paese.
Intendiamoci, non va sottovalutato soprattutto nel Mezzogiorno l’impatto che avrà una misura come il reddito: arrivano miliardi in territori difficili, depressi, sventrati socialmente dalla crisi economica. Non penso di essere enfatico se paragono la crisi economica nel Sud a una guerra. Il reddito non è la risposta ma è una risposta. Perché la domanda che viene dal Sud è quella di politiche pubbliche che in questi anni sono state completamente assenti. E – come sempre nel Mezzogiorno – le leve della spesa pubblica sono decisive per controllare il consenso, dove i rapporti tra potere e società si riarticolano e stabilizzano nuove classi dirigenti. Nell’economia meridionale che si trasforma attorno al reddito di cittadinanza può accadere che i Cinque stelle perdano la potenza travolgente del voto d’opinione del 4 marzo, ma stabilizzino un blocco sociale di riferimento, una base clientelare di massa che lo trasformi in un medio partito centrista di sistema. Attenzione dunque a analizzare il passaggio di fase.
Ho tuttavia la convinzione profonda che il Sud non baratterà mai il reddito con quell’autonomia differenziata che la Lega sta imponendo e che sulla scuola e la sanità segnerà la fine dello stato unitario! Occhio, perché sulla secessione dei ricchi ci giochiamo l’osso del collo.
Caro ministro Di Maio, e’ inutile indossare il gilet giallo se condanni un bambino di Napoli, di Reggio Calabria o di Bari ad avere una scuola di serie B, con insegnanti pagati duecento euro in meno! Il “residuo fiscale” resterà al nord mentre al Sud rimarrà soltanto un “residuo penale”, l’ansia del controllo sociale, l’assistenza per conservare un po’ di ordine pubblico. Un progetto eversivo che spezza in due il paese che impone uno schieramento ampio e trasversale: questi cambiano la Costituzione materiale del paese per decreto e senza nemmeno discuterne in Parlamento! Prima gli Italiani sì, ma quando si tratta di soldi, sempre prima gli italiani del Nord.
Serve un’opposizione senza sconti, in Parlamento e fuori, fino al ricorso alla Consulta perché sul territorio nazionale non possono esistere diritti di serie A e serie B.
Alla Consulta ci siamo già andati grazie all’iniziativa di Enrico Rossi sul decreto sicurezza che trasforma il nostro paese in una prigione a cielo aperto e distrugge tutta la rete di accoglienza diffusa dei migranti, unico antidoto all’insicurezza e alla paura. Questo accade mentre piangiamo l’ennesima strage a San Ferdinando, una baraccopoli indegna di un paese civile dove muore un giovane senegalese di nome Moussa B. Il 21 febbraio saremo lì a San Ferdinando per una iniziativa di Articolo Uno insieme a Enrico Rossi, Nico Stumpo, il sindaco di quella città, Andrea Tripodi, e tutto il nostro gruppo dirigente calabrese per affermare che un altro modello di accoglienza e di integrazione è possibile oltre che necessario.
E dovremo andarci alla Consulta anche qualora sulla Nave Diciotti ci dovesse essere un colpo di spugna in Parlamento, magari nel nome di Rousseau, perché il potere di un ministro non può arrivare a violare diritti umani elementari, perché i porti non possono essere chiusi da nessuno. Dobbiamo uscire dalla sindrome della sconfitta e combattere con le armi del diritto e le ragioni della politica.
Non credo che il ciclo di questa destra sia breve. Il Governo può cadere su qualsiasi incidente, sulla Tav come sul reddito o sull’autonomia differenziata, ma questa destra sta dentro un flusso mondiale destinato a radicarsi per anni dentro il ripiegamento della globalizzazione.
Dovremmo contribuire a provocarla quella rottura, agire, aprire contraddizioni. In poche parole, fare politica. Noto invece una certa vocazione minoritaria del partito principale di opposizione in cui la gara è a chi la spara più grossa sui Cinque Stelle. Dire mai con i grillini può provocare un applauso in più in una assemblea di partito ma non getta le basi per una alternativa credibile di governo. Mettiamoci d’accordo sulle priorità: quale è il nostro obiettivo principale di breve periodo? Sbarrare le porte di Palazzo Chigi a Salvini. Significa lavorare a dividere un blocco, non a saldarlo. Significa scongelare un terzo dei voti del paese ed aprirli a una prospettiva di alleanze diverse attorno ad alcuni punti essenziali: lavoro stabile, investimenti pubblici, riforma della politica. Significa che affrontare le Elezioni europee unendo gli integrati contro gli apocalittici, gli illuminati contro i barbari rischia di essere il miglior regalo a chi l’Europa la vuole distruggere, portandola sotto il tacco di Putin e di Trump.
L’Unità è un valore in sé. Può apparire banale, ma è utile ribadirlo. Sempre. Il nostro mondo chiede una reazione comune, un’operazione che metta da parte le divisioni di questi anni e che abbia il respiro per tornare a vincere. Un sentimento che condivido. Che fa parte della migliore tradizione della sinistra politica.
L’Unità del lavoro innanzitutto. Ogni volta che le forze sindacali sono state divise il mondo del lavoro ha fatto passi indietro rilevanti, con una riduzione drammatica dei diritti e del potere di acquisto.
L’Unità del paese. Oggi profondamente a rischio per la scelta di procedere con un regionalismo differenziato che rappresenta l’anticamera della secessione dei ricchi.
L’Unità delle forze che credono nella Costituzione repubblicana. Troppe volte in questi decenni usata come piattaforma di lancio di seconde, terze e quarte repubbliche, di esperimenti plebiscitari o di referendum usati come una clava dagli esecutivi.
Quando questo è accaduto è arrivata la destra peggiore che ha usato le stesse parole d’ordine per agevolare scorciatoie autoritarie. Non ho dubbi che nella difesa della democrazia formale i liberali, i cattolici democratici, gli ambientalisti, i socialisti e i comunisti debbano stare dalla stessa parte della barricata. Ma la risposta non può essere l’union sacrée. “Siamo europei” non significa nulla senza specificare quali europei siamo, che tipo di europei vogliamo essere.
E noi siamo Socialisti europei. Laburisti europei. Ecologisti europei. Femministi europei!
Le formazioni politiche in campo oggi sono inadeguate alla durezza della fase.
Serve una cosa nuova, che tiri una riga e rimetta la sinistra in campo.
Il 4 marzo è stato oggettivamente uno spartiacque, ma non se ne esce con una Scelta civica un po’ più grande, con l’establishment che si riorganizza.
Con un fronte europeista neutrale sui conflitti sociali e ambientali, sulla necessità di rilanciare il protagonismo del lavoro, su una idea di rifondazione dell’Europa che parta da una revisione in senso keynesiano dei trattati.
Anche perché mi parrebbe singolare che a guidare una svolta in questa direzione siano persino i protagonisti della destra di Confindustria che la mattina spingono in maniera forsennata per lo smantellamento dello Statuto dei Lavoratori e che la sera firmano appelli contro il populismo.
Il populismo arriva quando si spoliticizzano le ragioni dello sfondamento culturale della destra, quando si smarrisce qualsiasi critica al sistema di accumulazione della ricchezza ovvero al capitalismo così come è, quando finisce qualsiasi idea di politiche pubbliche redistributive.
Calenda coglie un punto: i soggetti così come sono strutturati oggi non sono sufficienti a rappresentare una richiesta di alternativa. È vero. Ma se non è sufficiente il Pd che si è attorcigliato attorno alla crisi della terza via – di un compromesso tra socialismo e liberismo che non regge più – come può esserlo una lista che dice meno di Juncker sull’austerità espansiva che ha dominato l’eurozona in questi anni?
Le identità non possono essere barattate in base alle oscillazioni del mercato politico, sono processi carsici che abitano nella testa dei popoli come ci dice oggi la prima pagina dell’Economist: “The rise of millennial socialism”. L’avanzata del socialismo dei millennials.
La vecchia talpa scava e coinvolge milioni di giovani nel mondo a partire dagli Stati Uniti attorno a una nuova militanza politica.
Lo sfida è questa. Ricostruzione significa questo. Abbattere le frontiere di una sinistra ridotta alla marginalità, essere curiosi, ricercare, mettere al centro l’interesse generale e non la boria di partito o peggio ancora di partitino.
I forum di oggi diventeranno il luogo di un’elaborazione stabile, strutturata e duratura, la forma e l’anima del nostro progetto politico rosso verde.
Nell’assemblea nazionale del 6 e 7 aprile prossimo approveremo il manifesto fondativo.
Il nostro documento sarà la base della discussione larga con il territorio, con i soggetti sociali e politici con cui interloquiremo per costruire un’alternativa possibile di governo.
Ci diranno che siamo secchioni, che spacchiamo il capello in quattro sulle virgole e i punti esclamativi, ma per noi la politica è studio e rigore intellettuale.
In tempi di incompetenza esibita, persino rivendicata, mi sembra merce rara.
Ha colpito tutti l’episodio del quattordicenne del Mali ripescato da un naufragio nel Mediterraneo, uno delle migliaia di morti di questa immensa tragedia, su cui è giusto chiedere una Commissione di Inchiesta parlamentare come hanno fatto numerose associazioni e di Ong. Quando gli hanno fatto l’autopsia, cucita addosso aveva una pagella. Quel pezzo di carta era l’unico amuleto prezioso che custodiva con sé. I voti scolastici. Pensava e forse si illudeva che la cultura era la chiave del riscatto, che in questo mondo nuovo che voleva conoscere e che voleva fortissimamente vivere, la conoscenza gli avrebbe aperto la porta della dignità, del riconoscimento sociale, della possibilità di costruirsi un futuro diverso. Invece no. Oggi chi studia passa per fesso, per secchione, per buono a nulla.
Aver piegato la formazione a una mera logica di profitto e di mercato sta spalancando le porte a un declino inarrestabile delle società europee. Proprio nel momento in cui la Silicon Valley richiede filosofi per le proprie aziende high tech.
Denaro, denaro, denaro. Il denaro compra tutto: il sapere, il sesso, la famiglia, il successo, il posto di lavoro, i voti.
L’unica cosa che il denaro non può  comprare è il tempo, come ci sussurra splendidamente Clint Eastwood in quel capolavoro che è The Mule, manifesto nemmeno tanto implicito dei tanti “forgotten man” che provano a barcamenarsi nella crisi più grande che l’occidente abbia conosciuto.
Il tempo è dalla nostra parte, compagne e compagni.
L’anacronismo è di chi ci vuole portare indietro: al diritto di sangue sul diritto di suolo, al recinto delle piccole patrie sul sogno dell’Europa unita, alla speculazione finanziaria sul diritto al lavoro, al patriarcato sul pensiero della differenza.
Il tempo è nostro, prendiamocelo.