Guerra: Reddito di cittadinanza, così la Corte ci invita a intervenire

Politica e Primo piano

Intervista ad Avvenire

di Nicola Pini

La Corte Costituzionale ha respinto l’equiparazione tra cittadini residenti e immigrati temporanei nel diritto ad accedere al Reddito di cittadinanza. Dunque sembra non ci sia discriminazione nell’escludere parte degli stranieri presenti regolarmente in Italia. Ne abbiamo parlato con Maria Cecilia Guerra, sottosegretaria al Mef. “È una pronuncia – commenta l’esponente di LeU – che va letta in linea con i precedenti interventi nel campo sociale. Solo pochi giorni fa la Corte ha confermato come incostituzionali le disposizioni che vincolavano l’accesso a misure come il bonus bebè o l’indennità per i disabili a una permanenza lunga in Italia. Il motivo per cui in questo caso non c’è stata la censura deriva dalla natura del Reddito di cittadinanza che è finalizzato non solo a contrastare la povertà ma soprattutto al reinserimento sociale e lavorativo. Questo aspetto lo differenzia da altre misure meramente assistenziali”.

Per questo non si sono applicati gli stessi criteri?

Sì, tuttavia la Corte dice anche che resta compito della Repubblica garantire il diritto di ogni individuo alla sopravvivenza e al minimo vitale, sottolineando una carenza del nostro ordinamento su questo fronte. Ma non si può con una sentenza correggere uno strumento in essere che ha una certa finalità e convertirlo a un’altra.

Insomma il Reddito è uno strumento ibrido e questo giustifica la sua natura non universale?

Il Rdc è stato impostato con la logica che povertà e mancanza di lavoro siano la stessa cosa. Ma non è così. Abbiamo una forte diffusione di lavoratori poveri, o individualmente o nel contesto familiare, come ha sottolineato nei giorni scorsi la commissione istituita presso il ministero del Welfare. E poi ci sono persone che non possono lavorare perché inabili o dediti alla cura dei loro familiari, o perché sono da tempo fuori dal mondo del lavoro e vivono condizioni di marginalità sociale. Il tema di garantire a tutti un minimo vitale è quindi un tema autonomo rispetto all’altra funzione delle politiche pubbliche che è quella di favorire l’inserimento lavorativo.

Perché la sentenza non è intervenuta sul criterio che esclude chi non risiede in Italia da 10 anni?

Si tratta di una norma che io considero incivile e vessatoria. Ma la Corte non vi ha fatto riferimento perché la questione che è stata sollevata riguardava una persona che rispondeva al requisito della residenza ma non aveva il permesso di soggiorno di lungo periodo. Al di là della sua rilevanza costituzionale nella sostanza si tratta di una norma discriminatoria perché il requisito dei 10 anni è molto più difficile che possa essere rispettato da persone straniere.

Come si esce da queste contraddizioni?

Dobbiamo agire con urgenza in due direzioni. Eliminare la soglia della residenza dei 10 anni. E intervenire sul Rdc per distinguere meglio la misura di contrasto alla povertà, che non può avere soglie di accesso discriminatorie, dagli interventi di politiche attive. Per farlo c’è bisogno di superare la propaganda politica secondo la quale chi è povero lo è per colpa sua, perché è un “poltronaro” che non vuole lavorare. Bisogna riconoscere che la povertà è una manifestazione estrema delle diseguaglianze che ci sono nel Paese, un fenomeno sociale non di volontà individuale, almeno in larghissima parte. Poi certo, le persone vanno anche incentivate e sollecitate a impegnarsi.

Criteri iniqui di accesso al Reddito per gli immigrati che conseguenze hanno?

Quanto sia drammatico il problema lo abbiamo visto con l’introduzione del Reddito di emergenza, che non richiedeva il permesso di soggiorno di lungo periodo e la residenza decennale: è andato nel 40% dei casi ad extracomunitari mentre nel Rdc siamo intorno al 12%. Significa che c’è una sacca di povertà, spesso si tratta di famiglie immigrate con figli, che lasciamo scoperta da strumenti di aiuto.