Guerra: gli errori del reddito di cittadinanza. I poveri non stanno sdraiati sul divano

Politica e Primo piano

Intervento su Il Fatto Quotidiano

di Maria Cecilia Guerra

Le misure di contrasto alla povertà subordinano, generalmente, la concessione del sussidio alla disponibilità ad accettare un’offerta di lavoro. Questo è vero anche per il Rei – Reddito di inclusione – già in vigore nel nostro paese. Ma nel dibattito in corso in questi giorni il tema è affrontato con un’enfasi eccessiva, che fa riemergere i retaggi del passato, secondo cui i poveri sono responsabili della propria condizione: incapaci di reagire per pigrizia, imbroglioni, profittatori, (“fannulloni sul divano”). Fino all’inizio del Novecento i poveri, in cambio di assistenza, venivano rinchiusi in istituti e impiegati in attività lavorative coatte, come forma di espiazione dei loro peccati. L’enfasi sul reinserimento lavorativo è preoccupante però non solo per questi risvolti culturali e sociali, ma anche per motivi di fondo.

Il primo motivo è che si rischia di condizionare negativamente il modo in cui il “reddito di cittadinanza” verrà disegnato. Mi riferisco in particolare all’idea di affidarne la gestione ai centri per l’impiego. Sembra che si ignori un’elementare verità: la povertà non è sempre e non è solo legata a mancanza di lavoro. Escludendo le famiglie composte solo da persone anziane, non più attivabili al lavoro, una quota rilevante di quelle che restano, attorno al 15 per cento, sono composte da famiglie in cui tutte le persone di età compresa fra i 18 e i 60 anni già lavorano. Sono i cosiddetti working poors (lavoratori poveri): impiegati in attività precarie o così scarsamente remunerate da non garantire un reddito decoroso. Difficile pensare si tratti di persone che non hanno voglia di lavorare: secondo l’Istat, il 67 per cento dei part time nel nostro paese sono involontari.

Nelle famiglie che restano ci sono persone adulte non occupabili, perché disabili gravi o gravemente invalidi o perché, e si tratta per lo più di donne, impegnate in lavori di cura: accudimento di minori e di anziani non autosufficienti. Non è colpa loro se gli asili nido in molte zone sono una chimera, l’assistenza degli anziani è considerata un problema delle famiglie e i servizi alle persone con disabilità sono carenti. Si riduce così drasticamente la quota di famiglie povere in cui ci sono adulti attivabili al lavoro.

La povertà poi è multidimensionale. Alla mancanza di reddito si associano altre difficoltà: scarsa qualificazione o mancanza di esperienze per l’inserimento lavorativo, disabilità, disagio abitativo (sempre più frequentemente legato a crisi familiari), emarginazione imputabile allo status di immigrati o a precedenti esperienze di vita come il carcere. Le politiche contro la povertà devono allora andare oltre al necessario sostegno economico e al mero condizionamento al lavoro.

Per queste ragioni è sbagliato affidarne la gestione ai centri per l’impiego, e non, come avviene nel Rei, ai servizi sociali dei Comuni che, attraverso la “presa in carico”, riconoscono le difficoltà specifiche dei singoli nuclei familiari e possono agire in collegamento non solo con i centri per l’impiego, come va fatto in tutti in casi in cui è possibile attivare percorsi di formazione e inserimento lavorativo, ma anche con la rete delle altre competenze presenti sul territorio: scuole, Asl, enti di volontariato, ecc. È fondamentale infatti ricordare che, dei 5 milioni e 58 mila poveri assoluti in Italia, 1 milione e 208 mila sono minorenni, esposti al rischio della dispersione scolastica, non sempre in regola con i protocolli sanitari, e condannati, per le minori opportunità a loro garantite, a subire la nota catena della trasmissione intergenerazionale della povertà.

Il secondo motivo è che non si può davvero credere che le politiche attive del lavoro possano fare miracoli (“abolire la povertà”): la disoccupazione non dipende, se non in misura marginale, dalla scarsa volontà o informazione degli individui circa le opportunità di lavoro presenti nel mercato del lavoro locale. Rendere punitive queste politiche, perseguendo l’inserimento lavorativo a qualsiasi costo, rischia di favorire la proliferazione di forme di lavoro senza dignità, precarie e mal retribuite, e di rafforzare, invece che rompere, il circuito del lavoro povero.

Il legame fra sussidio e lavoro povero richiede di prestare attenzione, come in parte già oggi fa il Rei, al rischio della trappola della povertà. Occorre cioè evitare che accettare un lavoro comporti un peggioramento della propria situazione economica, in quanto si perde di più in termini di sussidio, di quanto non si guadagni sul mercato del lavoro. Questo tema acquisirà una rilevanza particolare se il “reddito di cittadinanza” sarà di 780 euro netti per singolo individuo: una cifra in molti casi superiore a quella che un giovane, anche laureato, riesce a ottenere al suo primo ingresso sul mercato del lavoro.