Gotor: l’Anpi è fuori sincrono sulla Nato. La storia, da Berlinguer a D’Alema

Politica e Primo piano

Intervista con l’Huffington Post

di Alessandro De Angelis

Professor Miguel Gotor, la intervisto più che nelle vesti di assessore alla cultura di Roma come storico, mestiere che non ha abbandonato visto che è in uscita in autunno per Einaudi «Generazione Settanta. Storia del più lungo decennio del secolo breve. 1966-1982». È colpito dalle parole dell’Anpi sull’uscita dell’Italia dalla Nato?

“Mi sono parse inopportune perché fuori sincrono. Il presidente dell’Anpi ha parlato al congresso di dismissione delle strutture della Nato perché sarebbero venute meno le sue ragioni storiche dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. Stiamo parlando di un evento accaduto 33 anni fa, un periodo durante il quale la Nato ha continuato a svolgere la sua funzione in materia di sicurezza…

Mentre i russi bombardano l’Ucraina.

Ecco, mi parrebbe un tema interessante da affrontare in un convegno, ma non nelle ore in cui assistiamo a una guerra di invasione della Russia nei riguardi dell’Ucraina che sta resistendo, le cui conseguenze geopolitiche su scala regionale e mondiale sono ancora aperte e incerte. Lo dico con il massimo rispetto dovuto a un’associazione gloriosa come l’Anpi, ma le ragioni della pace in queste settimane possono essere affermate con argomenti più efficaci.

Sta ricordando all’Anpi il valore della “resistenza”, che non è un pranzo di gala?

Limitarsi alla condanna e basta è un grave errore. Del resto se l’azione dei russi si fosse risolta in un blitz e gli ucraini non avessero resistito all’invasione noi oggi saremmo molto più insicuri, come europei. In realtà l’azione di Putin ha già subito una grave sconfitta sul piano politico, diplomatico e della propaganda. E in termini di isolamento, dato non trascurabile. A furia di obliare la storia stiamo rimuovendo la realtà: senza la resistenza ucraina questo conflitto non avrebbe avuto un eventuale e auspicabile punto di caduta in una trattativa, ma si sarebbe risolto con l’umiliazione di uno Stato sovrano e dei suoi abitanti, umiliazione foriera di possibili nuove azioni aggressive da parte della Russia perché la storia insegna che l’appetito vien mangiando.

Prendiamo di petto la questione. Quando si scendeva in piazza per il Vietnam, lo sapevano anche i bambini che le armi ai Vietcong le davano i russi e i cinesi, per le armi ai ribelli del Cile di Pinochet faceva sottoscrizioni Lotta continua. Dietro questa polemica sulle armi all’Ucraina, sul ruolo della Nato, eccetera, resta, in una parte della sinistra, il vecchio pregiudizio antiamericano. Se ci sono di mezzo gli americani, è anti-imperialismo. Se non ci sono è neutralismo. È così?

Il dibattito pubblico italiano è intriso di nostalgia da tutte le parti. C’è un uso strumentale e quindi un abuso della storia che è direttamente proporzionale all’assenza di cultura storica nella nostra società come ha ben messo in evidenza Adriano Prosperi nel suo “Un tempo senza storia. La distruzione del passato”. Siamo un Paese rivolto al passato perché abbiamo difficoltà a interpretare il presente e a darci un ruolo e una funzione nel nuovo contesto mondiale. Gli Stati Uniti hanno vinto la guerra fredda, è da questa realtà obiettiva che bisogna partire. Oltre trent’anni dopo possiamo esprimere un giudizio su come ha amministrato quell’indubbio successo uscendo dalle gabbie ideologiche dell’antiamericanismo e del filo-americanismo a oltranza.

Sono d’accordo sull’uso strumentale della storia, però registro che c’è un pezzo della sinistra, quella “né né” per intenderci, che “culturalmente” ha un rapporto ancora controverso. La destra di oggi ce l’ha ancora di più. È una sedimentazione profonda di estraneità all’Occidente, inteso come decadenza. Andiamo alle radici.

L’idea che l’Occidente stia tramontando risale a oltre un secolo fa, a un celebre libro di Spengler. Quantomeno si tratta di un tramonto lunghissimo e dai mille colori, di quelli che piacciono ai filosofi della storia, ma non agli storici. Dopo la fine della guerra fredda abbiamo assistito a un’iniziale pretesa di unilateralismo degli Usa, fondata sull’idea che potessero essere una sorta di poliziotti del mondo. Ma questa ambizione si è dovuta scontrare con la realtà formata dal trauma dell’11 settembre, dall’emergere di nuove potenze economiche come la Cina e da un recupero di rango da parte della Russia di Putin dopo le umiliazioni subite nel corso degli anni Novanta. E ci sono stati anche gravi errori come la guerra in Iraq. Da qui la necessità di un’opzione multilaterale in cui gli Usa hanno un ruolo da protagonisti. Perché il multilateralismo consente di evitare l’isolazionismo dell’«America First», implica un ruolo attivo dell’Europa e permette di trovare un punto di equilibrio tra le necessità della realpolitik e l’interesse comune a difendere la democrazia, il libero mercato e i diritti umani che poi è il modo migliore per allargare il novero dei Paesi alleati degli Usa.

Certo, la Nato di oggi non è la Nato di ieri, inteso come Novecento. E la parola imperialismo non è spropositata per l’America di ieri. Questa è un’intervista in cui stiamo provando ad analizzare le ragioni di un pregiudizio, che impediscono oggi a un pezzo di opinione pubblica nazionale di schierarsi con l’Ucraina – uso un’espressione che non amo – senza se e senza ma, di fronte a un altro imperialismo.

Ho difficoltà a leggere questa guerra in termini ideologici a uso interno, soprattutto perché lo facciamo ciascuno dai rispettivi divani che abbiamo trasformato in trincee. Ripeto: in questa vicenda la distensione tra invaso e invasore, tra aggredito e aggressore non mi sono mai parse così chiare. È evidente che tutti vogliamo la pace, il punto è quale sia la strada più efficace per imporre uno stop al conflitto e l’avvio di un negoziato. Pensare che questo possa avvenire più facilmente senza sanzioni e senza armi che aiutino gli ucraini nella loro resistenza penso sia sbagliato. Ma sono il primo a essere a disagio nel risponderle dal tepore del mio salotto mentre gli ucraini stanno combattendo per difendere la loro patria invasa. Così anche accusare di equidistanza l’Anpi o settori del mondo cattolico mi pare un fuor d’opera.

Alcune ambiguità del movimento pacifista partono da lontano. La marcia della pace Perugia-Assisi pensata da Aldo Capitini è una cosa, le marce organizzate un decennio dopo, ai tempi di Brežnev, sono un’altra cosa: accanto al pacifismo sincero, c’è il pacifismo strumentale (Urss). Le due anime convivono.

Il movimento pacifista, proprio come la guerra fredda, è stato una cosa seria che nasce dentro un terrore che la nostra generazione ha dimenticato relativo allo scoppio di una guerra nucleare anche per errore su cui è uscito un bel libro di Laura Ciglioni “Culture atomiche” che ricostruisce questo clima in Francia, Italia e Stati Uniti negli anni Sessanta. Dentro questo contesto generale è avvenuto anche quello che dice lei, ossia un uso strumentale di quel movimento e persino fenomeni di possibile infiltrazione e “disinformatia” a opera del Kgb e della Stasi. Inutile che le dica che simili operazioni di propaganda e di disinformazione avvengono in ogni parte del campo ieri come oggi.

Un simbolo del “pacifismo delle quinte colonne” è Nino Pasti, uno dei generali Nato che si schierò contro gli euromissili. Ricordiamo la storia. Chi è Nino Pasti?

All’inizio degli anni Ottanta ci furono le manifestazioni contro l’installazione degli euromissili a Comiso, una partita di geopolitica internazionale di fondamentale importanza alla luce del fatto che la Russia aveva invaso l’Afghanistan nel 1979 e da lì, se non si fosse impantanata per oltre dieci anni grazie alla resistenza dei Talebani foraggiati dagli Usa, avrebbe potuto minacciare direttamente la sicurezza dei pozzi petroliferi dell’Arabia Saudita che alimentavano l’economia capitalistica da Tokio a New York. Quel movimento pacifista, animato da nobili motivazioni e attivamente sostenuto dal Pci di Pio La Torre, vide lo schierarsi di alcuni militari italiani, tra cui il generale Pasti, con un notevole ruolo di responsabilità in ambito Nato, a favore delle sue ragioni.

Si è poi scoperto che era Nino Pasti, candidato come indipendente nelle liste del Pci e collaboratore dell’Unità, che si fece fotografare mentre faceva volare colombe dalla pace. Bene, si trattava di una manovra di disinformazione con la regia della Stasi e del Kbg. E che le foto erano state scattate a Berlino est.

Di recente un libro di Thomas Rid, “Active measures, the secret history of disinformation and political warfare” ha fatto emergere che le posizioni assunte da quei militari “pacifisti” sarebbero state condizionate da un’attività di disinformazione dei servizi sovietici. Mi permetta però, di aggiungere che le amministrazioni militari non sono dei monoliti e al loro interno, dentro una comune matrice e fedeltà atlantica (Pasti era stato vicecomandante Nato in Europa per gli affari nucleari) possono sussistere e scontrarsi tendenze anche opposte (a favore o contro la guerra o, ad esempio, a favore o contro l’installazione del programma degli euromissili o di un determinato sviluppo del programma nucleare) che possono combattersi anche aspramente. La teoria e lo schema propagandistico della “Quinta colonna” di solito fa parte di questa battaglia e quindi sarei cauto.

Ai tempi, Berlinguer aveva già fatto la famosa intervista a Gianpaolo Pansa sull’ombrello della Nato. Quella fu una svolta autentica, che stava dentro la strategia del compromesso storico, su cui Berlinguer pagò dei prezzi personali, come il tentativo di attentato a Sofia raccontato da Emanuele Macaluso anni dopo.

Si sta riferendo alla celebre intervista del giugno 1976 di Berlinguer, un passaggio necessario a preparare il governo e la stagione della solidarietà nazionale che da lì a poco sarebbe cominciata e che aveva avuto una lunga gestazione sotto lo sguardo attento della comunità internazionale. Quell’intervista fu importante perché non enunciava soltanto la presa d’atto delle alleanze internazionali dell’Italia e la rinuncia a chiedere la sua uscita dalla Nato, ma conteneva un riconoscimento positivo della funzione svolta dalle alleanze internazionali ai fini della sicurezza e della sovranità dei Paesi dell’Europa occidentale e faceva compiere al Pci un altro passo in avanti nella sua collocazione nel sistema occidentale.

Quanto fu uno “strappo” e quanto rientrava in uno schema di autonomia, ma sempre nell’ambito di una scelta di campo?

Gli esegeti di Berlinguer raccontarono l’episodio come il primo «strappo» del Pci da Mosca, la prova di una manifestazione di autonomia dalle direttive sovietiche, ma oggi siamo a conoscenza che dall’Urss non giunsero sostanziali obiezioni a quella linea, giacché essa era compatibile con il processo di distensione allora in atto con gli Stati Uniti in seguito alla Conferenza di Helsinki. Ossia, anche in quel passaggio il nesso nazionale/internazionale e la costante ricerca di un equilibrio tra queste due dimensioni, che poi è il cuore dell’attività politica quando è di alto livello, svolse un ruolo fondamentale.

Lì inizia tutta una articolazione nel blocco comunista, di cui fa parte l’eurocomunismo, quello sì apertamente boicottato dai sovietici, che però hanno più presa su comunisti francesi e spagnoli.

Esattamente. Negli stessi mesi, Berlinguer approfondì anche il suo progetto di «eurocomunismo», rivolto ai partiti comunisti occidentali (specialmente di Francia e Spagna) escludendo quelli dell’Est. Nel giugno 1976 partecipò a Berlino alla conferenza dei partiti comunisti europei dell’est e dell’ovest, facendola però precedere da una serie di incontri bilaterali con i comunisti francesi e spagnoli: rivendicò la ricerca di un punto di vista comune euro-occidentale nella definizione di una via nazionale al socialismo.

Quanto è funzionale all’avvicinamento a quella che allora si chiamava area di governo? Mi pare di capire che lei la legge molto in chiave tattica: tra legittimazione e revisione politico-culturale, lei fa pendere il pendolo sulla prima.

Questa posizione implicava la valorizzazione della democrazia rappresentativa, quella che i sovietici, in base alla dottrina marxista-leninista, continuavano a giudicare una sovrastruttura borghese. Tutto questo era funzionale a una progressiva integrazione del Pci nelle forze di maggioranza, un processo che avvenne mediante l’escogitazione di incredibili alchimie parlamentari tra governi delle astensioni e della non sfiducia, fin quando, il 16 marzo 1978, quando il Pci per la prima volta dal 1947 fece ritorno dentro la maggioranza di governo, pur senza esprimere ministri, avvenne l’agguato di via Fani e il rapimento di Moro. La formula della solidarietà nazionale sopravviverà alla scomparsa del suo demiurgo in modo stentato meno di un anno e lo stesso Berlinguer si troverà, senza Moro, privo di punti di riferimento autorevoli per continuare la sua politica di compromesso storico. Andreotti da solo non poteva bastare e infatti non bastò.

E il Vaticano ha svolto un ruolo?

Certo, occorre infatti notare che l’azione di Andreotti avvenne in allineamento con la parallela azione diplomatica svolta dal Vaticano negli stessi anni incentrata sui principi della Ostpolitik. Di conseguenza la traiettoria del governo e il progressivo coinvolgimento del Pci al suo interno contribuirono al processo di disgelo e al dialogo con la Russia e con i Paesi del blocco orientale, in coordinamento con il Vaticano e interpretando il disegno strategico prevalente nel dipartimento di Stato americano. Sarebbe opportuno che un simile allineamento si ripetesse anche nella crisi di oggi perché ha una sua saggezza direttamente proporzionale all’effettiva autonomia e alla forza reale che l’Italia ha nelle relazioni internazionali.

Questo è stato possibile perché siamo in un’altra fase della guerra fredda, rispetto agli anni Cinquanta e anche Sessanta, che consente margini di manovra in Italia nell’ambito dello schema della doppia “lealtà”. Con buona pace dei cantori della via italiana, c’è sempre il nesso nazionale internazionale?

Fare politica significa sempre partire dal riconoscimento di quel nesso e difendere i margini di autonomia possibile dentro di esso. Sul versante delle relazioni internazionali la fase della solidarietà nazionale vide fronteggiarsi due forze antagoniste: da un lato il processo di distensione tra i blocchi, durante il quale il governo Andreotti accompagnò quel corso della politica estera statunitense, ispirato dal segretario di Stato Kissinger, che promosse un diverso modello di gestione della politica di potenza grazie a una rinnovata centralità della diplomazia bipolare e al contenimento della proliferazione degli armamenti nucleari. Parallelamente anche l’Unione Sovietica di Brežnev sviluppò un processo di distensione concepita come una fase della «guerra di posizione con il capitalismo» e come un elemento decisivo per rafforzare ulteriormente la propria leadership tra i Paesi satelliti, stabilizzare il blocco sovietico e gestire la crisi del campo imperialista, cogliendo però l’occasione per aumentare gli interscambi di tecnologie, beni di consumo e capitali con gli Stati dell’Europa occidentale, tra cui l’Italia.

Quanto i comunisti e post comunisti hanno poi vissuto il tema della Nato come legittimazione e quanto con convinzione? Titolo: D’Alema e il Kosovo. Svolgimento, prego.

Allora il tema della legittimazione svolse un ruolo importante. Credo che quando un capo del governo deve decidere la partecipazione delle forze armate del proprio Paese a un conflitto si trovi nel momento più drammatico della sua attività e funzione. Al presidente D’Alema è toccato in sorte questo destino e ciò che fece credo che meriti rispetto anche perché ha pagato un prezzo sul piano politico nei suoi rapporti con l’opinione pubblica di sinistra, che era la sua. L’intervento militare in Kosovo sotto l’egida della Nato pose fine a un conflitto etnico che avrebbe potuto incendiare l’intera area dei Balcani che si trovava in linea d’aria a poche centinaia di chilometri dalle sue coste. La priorità era evitare questo esito.

Quella vicenda del Kosovo è paradigmatica. D’Alema è al governo, un pezzo della sinistra va in piazza contro la “guerra americana”, schierandosi così a difesa dell’ultimo epigono dell’Urss che praticava la pulizia etnica. E ci risiamo con l’anti-americanismo da cui siamo partiti in questa conversazione.

Senta, nel gennaio 1991 la sinistra si divise se partecipare sotto l’egida dell’Onu alla guerra contro l’Iraq che aveva invaso il Kuwait. Avevo vent’anni allora e ho il nitido ricordo di questa frattura. Il punto è un altro. Anche in questo rilevante passaggio la vita politica nazionale tornò a essere influenzata dal vincolo esterno atlantico: la Nato annunciò l’innesco dell’activation order (la procedura che rendeva la guerra imminente) l’8 ottobre 1998; il 9 ottobre il governo Prodi perse la fiducia del Parlamento; l’11 ottobre si verificò la scissione in Rifondazione comunista e il 21 ottobre nacque il nuovo esecutivo guidato da D’Alema, con il nuovo partito di Francesco Cossiga in maggioranza. Evidentemente l’ex presidente della Repubblica svolse il ruolo di garante politico italiano di una dimensione sovranazionale di tipo atlantico, che individuò nell’allora segretario del Pds D’Alema la personalità in grado di garantire meglio di altri l’esito dell’impresa bellica e, contemporaneamente, la tenuta dell’opinione pubblica italiana.

Cosa che in una parte della sinistra non avviene e D’Alema paga un prezzo.

D’Alema, e mi lasci ricordare anche Minniti visto che era sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi, in quel momento paga un prezzo, ma faceva il presidente del Consiglio dell’Italia non il segretario di un partito. Lo sa e lo mette in conto. Non so se riusciamo a vedere il valore storico di quanto avviene nel 1999: soltanto otto anni dopo la fine dell’Unione Sovietica, un ex dirigente comunista come D’Alema guidava il Paese dentro un’operazione militare della Nato che avrebbe bombardato la capitale di un ex Stato socialista, uno scenario che, prima della caduta del muro di Berlino, solo uno scrittore di fantascienza avrebbe potuto immaginare. L’accelerazione storica mi pare enorme. Un simile passaggio riprova che la politica è l’arte del possibile e non solo e oggi a questa speranza dobbiamo appellarci affinché prevalgano le ragioni della pace su quelle della guerra.

Lei ha ricordato Minniti, che non si pente, anzi rivendica l’azione in Kosovo. Invece Massimo D’Alema, premier della “guerra giusta”, qualche anno dopo scrisse un libro per definirla “un errore”, e ci risiamo coi riflessi antichi. Contestato da sinistra, fa autocritica invece di rivendicare la discontinuità. Questo è un elemento enorme di cultura politica.

Non vedo riflessi antichi. Vedo una comprensibile riflessione di un dirigente politico che si è trovato a dovere prendere decisioni di grande rilievo che a distanza di anni torna criticamente sulle proprie decisioni prese in un contesto nazionale e internazionale particolarmente necessitante. Il riflesso in questo caso era presente, ossia collegato alla necessità di ricercare una nuova connessione sentimentale con quella parte della cultura progressista italiana che non gli aveva perdonato la scelta del Kosovo.

Mi sta dando ragione Gotor. Invece di rivendicare la scelta, si pente. E siamo al filo rosso di questa storia: quelli che stavano con Milosevic ieri e quelli del né né oggi su Putin. Lei è riluttante, ma questo è un elemento di cultura politica

È vero, tendo ad attribuire a quelle che lei chiama “cultura politica” un peso relativo rispetto a nodi e interessi che mi paiono più stringenti. Oggi la situazione per l’Italia è delicatissima perché noi abbiamo tradizionalmente, almeno dai tempi di De Gasperi e Fanfani, una politica estera saldamente atlantica ed europeista ma aperta al dialogo politico e diplomatico e allo scambio commerciale con i Paesi dell’Est e quelli arabi. Non per vocazione – o per cultura politica – ma per elementi necessitanti che derivano dalla nostra posizione geografica nel cuore del Mediterraneo. E il problema oggi non riguarda solo noi perché ormai siamo dentro un contesto di Unione europea che paga ancora gravissimi ritardi sul piano della difesa militare comune. La verità è che la forza di questa crisi, che temo sarebbe illusorio definire regionale, obbliga a ridiscutere il senso e la strategia della politica estera dell’Europa degli ultimi vent’anni, con il suo allargamento verso Est a tappe forzate voluto in particolare dalla Germania che tra l’altro è stato una delle ragioni delle difficoltà complessiva vissuta dal progetto europeo. La mia paura di oggi è che questa guerra possa trasformare gli Urali in una nuova linea di frattura tra Oriente e Occidente, questo sarebbe drammatico. E chi oggi sta puntando su questo scenario è più miope di una talpa cieca.

Questo impianto di politica estera ha un riflesso sulle classi dirigente economiche del paese, abituate al business con la Russia. L’Italia appare un “alleato riluttante” anche per questo? Tra Pil e libertà, scelgono il Pil.

Mi pare evidente che pezzi delle classi dirigenti politiche, economiche e imprenditoriali italiane si sono trovate spiazzate dalla scelta bellicista di Putin. E il discorso riguarda la destra come la sinistra del quadro politico, anzi tra Berlusconi e Salvini il peso della bilancia è più spostato nel loro campo che in quello progressista. Ma sarebbe disonesto intellettualmente negare che il problema riguarda l’intero campo politico, ad esempio un pezzo importante dei 5 stelle. L’Italia era piena di «amici di Putin» col giubbotto o senza, ma il nostro governo e quadro politico diffuso, all’indomani della vittoria di Biden alle elezioni, ha subito una chiara torsione atlantica. È come se fosse rientrato in asse.

Rientrato in asse, dice lei, e infatti era fuori asse. Poi arriva questa guerra, squarcia il velo di Maja. Squarciato il velo, cose vede lei, come tendenze di lungo periodo?

Questa crisi militare evidenzia i limiti di un doppio processo in atto in Italia, uno di così lungo periodo da poterlo definire tradizionale e l’altro più recente: nel primo caso una vocazione al realismo politico che anche nei tempi più duri della guerra fredda non ci ha fatto rinunciare a un’interlocuzione fattiva dal punto di vista economico, imprenditoriale ed energetico con la Russia: penso a Gronchi, a Fanfani, ad Andreotti. L’altro è la mutazione genetica del moderatismo italiano.

Partiamo dal primo. Fa riferimento al neo-atlantismo, dopo la fase degasperiana, segnato dalla ricerca di un ruolo, però sempre nell’ambito della scelta di campo. Il viaggio di Fanfani a Mosca a da Nasser. L’idea di una Italia come potenza mediterranea che, collocata stabilmente nell’atlantismo, però si ritaglia margini di azione.

Lei ricorderà che Gronchi, Fanfani e Andreotti si sono serviti dell’intermediazione e dei contatti del Pci in una fase storica in cui l’Italia, così divisa ideologicamente, in realtà ha saputo fare sistema; si pensi solo agli investimenti della Fiat a Togliattigrad dal 1966 in poi o al viaggio di Andreotti a Mosca nel 1972 quando egli governava con i liberali, il cui atlantismo era a prova di bomba. Anche così Andreotti, pur continuando a incentrare la politica estera italiana tra le colonne d’Ercole dell’europeismo e dell’atlantismo, riuscì a inserirsi con abilità nel processo internazionale di distensione tra i due blocchi, ispirato dalla realpolitik kissingeriana. Questo disgelo delle dinamiche della guerra fredda consentì all’Italia di ritagliarsi uno spazio autonomo di dialogo con Mosca.

Lei parla di autonomia, però è una autonomia sempre nell’ambito di una scelta di campo successiva alla de-stalinizzazione. Diciamo che nell’atlantismo italiano ci sono due anime, una più degasperiana, l’altra più fanfaniana e andreottiana, ma l’idea di una potenza terzaforzista, fuori dai blocchi, finisce con Dossetti e col viaggio di De Gasperi a Washington.

Sì, ma il ruolo autonomo, che io vedo più autonomo di lei, allora si saldava – qui può esserci un punto di contatto con l’oggi e con lo spiazzamento odierno di una parte delle élite economiche del Paese – con la tutela dei propri interessi nazionali sul piano energetico, industriale e finanziario grazie ai vantaggi conseguiti dalle principali aziende pubbliche e private (Iri, Fiat, Pirelli, Eni, Enel, Montedison, Banco di Roma). A questo contribuì l’intermediazione svolta dal Pci con la sua rete privilegiata di rapporti formali e informali con l’Unione sovietica.

In ogni modo, la cesura col moderatismo di oggi è drastica. Lei parla di mutazione genetica. Diciamo che si è trumpizzato il centrodestra, il che è una novità nella storia d’Italia ma non è un unicum europeo. Dopo la crisi del 2008, il rapporto tra Putin e i partiti populisti dell’occidente diventa organico

È così. Da questo punto di vista la parabola del salvinismo, dalla presa del potere alla sua repentina caduta e all’attuale smarrimento di leadership di cui è segno plastico il suo incontro con il sindaco polacco ai confini con l’Ucraina, mi pare evidente. Ma il discorso riguarda anche la parabola dei 5 stelle dal 2013 in poi, di cui oggi è più importante capire con rispetto cosa diventeranno che non riflettere su cosa sono stati e non potranno più tornare a essere perché hanno esaurito la loro funzione.