D’Attorre: perché l’uscita di Renzi è un’opportunità per la sinistra

Politica e Primo piano

Pubblicato su Il Foglio

di Alfredo D’Attorre

La riflessione di Bettini sui compiti del Pd post-renziano è molto interessante. Non solo per l’autorevolezza dell’autore, ma per lo sforzo di misurarsi fino in fondo con una realtà radicalmente mutata rispetto al momento di nascita di quel partito.

Se si vuole uscire dalla ripetizione meccanica di formule ormai logore o da un rimpallo di torti e ragioni fra i protagonisti delle diverse fasi di divisione del Pd, il punto sta proprio qui: riconoscere che siamo in un altro mondo rispetto a quello in cui quel partito è stato fondato. Personalmente non penso che l’errore sia stato provare a superare la divisione tra cattolicesimo democratico e sinistra riformista. E tanto meno che oggi la soluzione sarebbe il ritorno a una divisione tra laici e cattolici, tra un nuovo DS e una nuova Margherita, riattivando il trattino del vecchio centrosinistra.

Il Pd è nato male non perché ha provato a costruire una sintesi nuova tra radici culturali inconciliabili, ma perché ha rinunciato fin quasi dal principio a questo tentativo, attestandosi su un nuovismo post-ideologico che si è rivelato ben presto la foglia di fico di una totale subalternità alla narrazione iper-ottimistica della globalizzazione neo-liberale. Erano gli anni in cui i libri e gli editoriali sul perché “il liberismo è sinistra” trovavano diverse orecchie attente nei fondatori del Pd (e, a essere onesti, nei DS non meno che nella Margherita). Sta qui il paradosso di un partito che, nato all’insegna della retorica del superamento del Novecento e delle vecchie appartenenze, si è ritrovato a essere culturalmente anacronistico già pochi mesi dopo la sua fondazione, allo scoppio della grande crisi globale e del tramonto delle illusioni liberiste.

La radice dei caratteri che hanno fatto progressivamente smarrire ai democratici il rapporto con i ceti popolari, e che Bettini individua lucidamente («difensori strenui dei soli diritti individuali», «esecutori delle compatibilità di bilancio europee», sostenitori di un «individualismo imperante che ha colpito la coesione sociale»), sta proprio in questo anacronismo originario, in questo spiazzamento storico di fronte alla grande cesura della crisi, che ha poi aperto il campo all’offensiva della nuova destra.

Il tema del “dare forma” alla società, posto da Bettini, è molto importante, perché indica finalmente la consapevolezza di dover fare i conti con le nuove domande, sociali e perfino antropologiche, poste dallo sconvolgimento della crisi e dal tracollo di larghi settori del ceto medio. Personalmente mi interrogo da qualche tempo sulle conseguenze di quello che potremmo definire un nuovo Zeitgeist post crisi, in cui le esigenze primarie e l’immaginario del trentennio precedente –libertà individuale, opportunità, mobilità, merito, autoimprenditorialità– vengono sostituiti da istanze di segno diverso –protezione, comunità, identità, legame, appartenenza-, rispetto alle quali la risposta regressiva della destra appare più immediata ed efficace. Se non vogliamo continuare a ritrarci inorriditi di fronte a ciò che il popolo è diventato, è a queste nuove istanze che, volenti o nolenti, bisogna dare una risposta democratica. Continuare a negare le domande del popolo, come per larghi tratti  il centrosinistra ha fatto dopo il voto del 4 marzo, non significa rieducarlo, ma lasciare in campo solo le risposte della destra. Da questo punto di vista, la nascita del nuovo governo e l’alleanza con il M5S è insieme una grande opportunità e una grande rischio. Ma mai come ora c’è del vero nel verso visionario di Hölderlin: «lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva».

Se collochiamo la discussione all’altezza posta da Bettini, la scissione di Renzi appare un evento meno incomprensibile e si può ragionare del futuro del Pd e del centrosinistra in maniera nuova e feconda. Senza immaginare né ritorni al passato, né sterili continuismi. Al di là del nome e dei passaggi organizzativi, il punto è come costruire una nuova identità del soggetto centrale del centrosinistra. Non basta un’elencazione di punti programmatici, né la mera evocazione di un ‘campo largo’ di personalità tra loro eterogenee (e anche qui la riflessione di Bettini mostra una significativa carica innovativa). Bisogna tradurre i bisogni storici di questo tempo che «ci tocca vivere» in un nuovo linguaggio e in una nuova cultura politica. Per rifondare un soggetto possa esercitare la sua vocazione maggioritaria anche in un sistema proporzionale alla tedesca (l’unico realisticamente compatibile a questo punto l’impianto parlamentare della Costituzione e con la riduzione dei parlamentari), non inseguendo fantomatiche praterie elettorali moderate, ma riassorbendo parte del voto popolare finito al M5S e contendendo alla Lega il ruolo di primo partito alle prossime elezioni.

Se il Pd ascolterà Bettini e aprirà questa discussione sui fondamentali, non sarà una discussione che interesserà e riguarderà soltanto chi oggi è nel Pd.