D’Attorre: il richiamo all’identità non può bastare a salvare la sinistra

Politica e Primo piano

Intervento su Strisciarossa.it

di Alfredo D’Attorre

Le dimensioni del successo della Lega alle elezioni europee hanno smentito l’opinione che si era diffusa tra osservatori e sondaggisti alla vigilia del voto, per la quale i temi che avevano caratterizzato mediaticamente la campagna elettorale (caso Siri, polemiche sull’antifascismo e sui migranti, contestazioni nelle piazze, scontro continuo con il M5S, esibizione del rosario) avevano finito per logorare Salvini e avrebbero determinato un’inversione rispetto al suo trend di crescita dei mesi precedenti.

L’Italia reale

Le urne hanno fatto emergere – per l’ennesima volta, verrebbe da dire – un’Italia reale molto distante da quella rappresentata sui media o su twitter. Un’Italia profonda, radicata nelle periferie urbane, nelle aree interne e nei centri medio-piccoli, che ha portato la destra soi-disant ‘sovranista’ della Lega e di Fratelli d’Italia oltre il 40% dei voti validi, nonostante un calo dell’affluenza che in teoria avrebbe dovuto limitare la sua avanzata. Il M5S, dato in recupero per effetto della polemica mediatica nei confronti della Lega nelle ultime settimane, è andato incontro a un rovescio clamoroso, dimezzando la percentuale e perdendo oltre sei milioni di voti rispetto alle politiche dell’anno scorso. Le analisi dei flussi indicano che questa valanga di voti è finita in larga parte nell’astensione e in parte è stata assorbita dalla Lega. Sul versante del centrosinistra, la lista unitaria promossa da Zingaretti è riuscita a riportare al voto il grosso degli elettori del PD e ad assorbire circa la metà del voto di LeU alle politiche, ma non ha intercettato quasi nulla del flusso in uscita dal M5S, restando sostanzialmente confinata nel recinto sociale del 4 marzo.

Va dato atto a Zingaretti di aver messo in campo l’unica linea probabilmente praticabile nel breve periodo intercorso tra la sua elezione e il voto europeo: ricompattare il Pd, trasmettere la sensazione di un nuovo inizio evitando però strappi troppo laceranti rispetto alla gestione precedente e promuovere una lista aperta a personalità d’area e altre forze riconducibili al PSE. Articolo Uno, dopo il fallimento del progetto di LeU, ha avuto la saggezza e l’umiltà di cogliere questo piccolo varco che Zingaretti era in condizione di offrire e di fare una scelta unitaria, pur in assenza di un accordo politico sul simbolo e sulla composizione della lista. L’alternativa sarebbe stata una divisione fra forze che si riconoscono nella stessa casa europea del PSE e un’ulteriore frammentazione a sinistra.

Risultato negativo

Il risultato molto negativo dell’ennesimo cartello elettorale della sinistra radicale ha confermato peraltro quello che l’insuccesso di LeU aveva già reso evidente il 4 marzo dell’anno scorso: nell’Italia di oggi non vi è più alcuno spazio elettorale garantito per il semplice fatto di collocarsi ‘a sinistra’ del Pd, senza una proposta politica che sui nodi decisivi – Europa, immigrazione, ruolo dello Stato, protezione sociale – sappia riconnettersi con lo smarrimento e le istanze reali dei ceti popolari. Può essere amaro riconoscerlo, ma oggi il puro richiamo identitario alla sinistra e ai suoi valori di per sé non mobilita più nessuno, al di fuori di una sempre più ristretta cerchia di militanti. Un’analoga astrattezza mostra l’argomento del centro e dei moderati. Se per centro si intende la rappresentanza del ceto medio, esso semplicemente non esiste più per come l’abbiamo conosciuto ancora fino a prima della crisi. Una buona metà di esso si è impoverito e oggi è tutt’altro che moderato, mentre il pezzo di ceto medio uscito vincente dalla globalizzazione oggi si sente in larga parte ‘progressista’ e costituisce il vero zoccolo duro di tutte le forze del centrosinistra, da +Europa alla sinistra antagonista passando il Pd.

Come non ha senso l’evocazione del centro inteso come una prateria elettorale che aspetta di essere conquistata, così non basta l’enunciazione di uno spostamento ‘a sinistra’ o il ritorno a una fraseologia più tradizionale per riconquistare il voto degli operai o delle periferie. Dove certo bisogna tornare e provare e reinsediarsi, ma senza illudersi che basti portare lì il verbo del “politically correct” progressista, che tanto funziona nei quartieri centrali, magari con una spruzzatina di slogan più cari alla tradizione di sinistra. Serve ormai altro per contrastare una destra che ha sfondato non con la presenza organizzativa, ma con un messaggio politico semplice, brutale, diretto.

Elettorato mobile

Una discussione astratta sullo spostamento al centro o a sinistra oggi rischia di non cogliere nulla delle pulsioni dell’Italia reale, come peraltro conferma la natura nuova, composita, contraddittoria della nuova destra vincente. Certo, c’è un elettorato sempre più mobile alla ricerca frenetica dell’uomo nuovo in grado di condurre il Paese fuori dalla sua crisi infinita, c’è un conseguente accorciamento progressivo dei cicli politici per le delusioni che ne derivano, ma nel voto del 26 maggio si manifesta anche una dose di disincanto e di pragmatismo. Nello stesso giorno, in molte città, l’elettore investe sulla Lega alle europee e poi decide di votare o di rivotare un sindaco di centrosinistra: punta su Salvini, dopo aver magari sperato in Renzi o nei M5S negli anni scorsi, ma se ha un sindaco bravo se lo tiene ben stretto, anche se di orientamento politico opposto. Lo scostamento fra voto amministrativo e voto politico non è una novità, ma raggiunge stavolta livelli impressionanti.

Di fronte a un quadro così fluido e composito, ha senso la chiave di lettura della ‘marea nera’ o della ‘deriva fascista’ per interpretare il voto del 26 maggio e capire le ragioni profonde dello spostamento a destra? Ed è davvero questo l’atteggiamento che può consentire di riconquistare la fiducia dell’elettorato in uscita dal M5S? Qui sta un punto decisivo che il centrosinistra dovrà affrontare e sciogliere se vuole uscire dal recinto sociale del 4 marzo, in cui è ancora chiuso. Un punto che viene perfino prima dei contenuti programmatici e anche della manovra politica rispetto al gruppo dirigente del M5S. Per trasmettere l’idea di aver capito la lezione, bisogna anzitutto liberarsi della fatale presunzione di rappresentare l’“Italia migliore”, come tante volte si sente ripetere in ambienti di sinistra con malcelato disprezzo nei confronti del ‘volgo incolto’ che ha dato credito ai ‘populisti’. Allo stesso modo, vent’anni di berlusconismo dovrebbero averci insegnato che la demonizzazione personale dell’avversario è una scorciatoia che non porta lontano, specie per chi ambisce a recuperare i voti di quei settori di società che non votano sulla base di raffinati criteri estetici o intellettuali, ma sotto l’urto immediato di paure e bisogni di ordine materiale. E anche un certo senso di estraneità di fronte all’Italia profonda e una malcelata esterofilia, in virtù della quale qualsiasi critica al nostro Paese provenga dall’estero diventa talora a sinistra oro colato, sembrano fatti apposta per spalancare ulteriori praterie all’utilizzo di temi nazionalisti da parte della destra.

Pre-condizione

Per una sinistra che voglia riportare al centro con una qualche credibilità la questione sociale, mettere in discussione questi atteggiamenti è quasi una pre-condizione per essere presa sul serio. E non basta più ormai neppure agitare parole d’ordine generiche (la patrimoniale, l’ambiente, l’Europa, l’accoglienza) se non le si inserisce in una nuova cornice, in grado di ristabilire una ‘connessione sentimentale’, ossia un linguaggio e un sentire comune con i ceti popolari. C’è un popolo che si è sentito tradito e abbandonato nella concretezza delle sue condizioni materiali di vita dal posizionamento puramente ‘valoriale’ della sinistra.

È un discorso che vale per l’Europa, che da un certo momento in poi è diventata una sorta di totem, a cui si è pensato di poter sacrificare anche i diritti sociali e del lavoro. È una questione che riguarda il tema ancora più delicato dell’immigrazione: dalla sacrosanta difesa di principi di accoglienza e integrazione si è talora passati a negare la realtà oggettiva del problema in molte aree del Paese, riducendolo a una semplice percezione distorta. È un problema che adesso si ripropone sul tema cruciale dell’ambiente, su cui la sinistra non è riuscita ancora a uscire dalla retorica e a spiegare come la conversione ecologica possa essere un modo per correggere i guasti del mercato e difendere meglio il lavoro.

Il passo da compere per costruire l’alternativa non è quello di diventare genericamente “più di sinistra”, accentuando magari tic linguistici, errori del passato e perfino una distanza epidermica con gli elettori che avevano scelto il M5S. Si tratta invece di trasmettere al nostro ex popolo il messaggio di aver capito, senza continuare a dare l’idea che sia il popolo a doversi redimere per capire il discorso alto e nobile della sinistra. Il punto non è perciò se il nuovo centro-sinistra debba spostarsi in astratto più al centro o a sinistra. Se il centro è moderatismo, lì non c’è più nessuno. Se il centro è buon senso, concretezza e capacità di guardare in faccia la realtà, nell’attuale epoca storica questo buon senso può essere qualcosa di molto radicale, ben più di una certa sinistra parolaia e autocompiaciuta.

Un nuovo centrosinistra

La questione è piuttosto come si reinnesta in questo nuovo centrosinistra, che prova a recuperare un contatto con l’Italia reale, un punto di vista modernamente socialista o ecosocialista, come preferisco chiamarlo. Questa è la vera mossa che serve rispetto alla natura ancora irrisolta del Pd, sospeso tra persistenti pulsioni liberal-liberiste e ancora vaghe nostalgie socialdemocratiche. Se il Pd, come al momento sembra, antepone la tutela degli equilibri interni alla soluzione di questo nodo, l’alleanza per l’alternativa ha assoluto bisogno di un soggetto distinto di ispirazione socialista, l’unico che possa trasmettere a un pezzo di elettorato popolare il messaggio che qualcosa di sostanziale è cambiato. Perciò, lo stesso realismo e lo stesso senso di responsabilità, che alle europee hanno indotto Articolo Uno e altri a compiere la scelta della lista unitaria sotto l’egida del PSE, devono adesso spingere a mettersi al lavoro senza esitazioni e tatticismi per costruire questa componente essenziale del nuovo centrosinistra.