D’Alema: non si caccia l’uomo più popolare per volere del più impopolare

Politica e Primo piano

Colloquio con Repubblica

di Stefano Cappellini

Dicono che sia da tempo tra i consiglieri più ascoltati di Giuseppe Conte. Dicono anche che sia tra i più attivi per la ricerca di una soluzione per scongiurare la crisi di governo. Dicono. Ma Massimo D’Alema nega: «Le uniche cose per le quali sono attivo – spiega al telefono l’ex presidente del Consiglio – sono il grande convegno con cui il 21 gennaio celebreremo i cento anni del Partito comunista italiano e la preparazione di un seminario a Mosca sulla de escalation della tensione nei rapporti tra Russia e Ue. Una cosa grossa, mi attendono alla commissione Esteri della Duma». Ma se il Parlamento russo può dedicarsi serenamente alla convegnistica, quello italiano pare ormai aspettare solo la resa dei conti tra Conte e Matteo Renzi. D’Alema, però, professa ottimismo, anzi quasi non si capacita che vi sia chi dà per spacciato il governo dell’avvocato del popolo. La crisi, secondo lui, rientrerà. In un modo o nell’altro: «Conviene a tutti – scommette – vedrete che presto si tornerà a parlare d’altro».

Sebbene si schermisca sul suo ruolo («Io non non faccio più politica, se non come semplice iscritto di Articolo Uno»), ci sono buone ragioni per scomodare un parere di D’Alema sulla crisi. La sua esperienza di situazioni simili, ovviamente. Come pure le analogie con vicende del passato. Sull’ex premier pesa da sempre l’accusa di aver tramato per fare cadere il primo governo Prodi per insediarsi a Palazzo Chigi, accusa che ha sempre fermamente respinto, spiegando che nel 1998 fu l’ostinazione di Romano Prodi nel cercare la conta in Parlamento a causare il patatrac. Potrebbe essere la stessa scelta di Conte, che in mancanza di un accordo con Renzi pare tentato di andare a caccia in Senato dei fin qui fantomatici responsabili. C’è il rischio che anche Conte passi i prossimi anni a dolersi della congiura dei partiti che lo hanno sfrattato da Palazzo Chigi? Anche in questo caso D’Alema non vede il pericolo, convinto che, se l’obiettivo reale di Renzi è la destituzione di Conte, il piano non possa trovare sponde negli altri partiti della maggioranza: «Non credo che possa passare perla mente di nessuno l’idea di mandare via da Palazzo Chigi l’uomo più popolare del Paese per fare un favore a quello più impopolare». Non c’è bisogno di chiarire a quale nome risponda la seconda figura.

Come se ne esce però? Di voci ne circolano tante. Tra le più fondate, la possibilità che a Palazzo Chigi arrivi una personalità forte del Pd: Goffredo Bettini. Non come vicepremier, ruolo sgradito a Conte, ma nei panni di sottosegretario alla presidenza del Consiglio, «il Gianni Letta del Pd», un ruolo fin qui scoperto secondo í dem, che attraverso il vicesegretario Andrea Orlando hanno pubblicamente suggerito al premier di colmare la lacuna. Sulla destinazione D’Alema non commenta, sul politico invece sono solo lodi: «Bettini è uno serio e responsabile. Per fortuna a cercare una soluzione ci sono uomini come lui e come Roberto Speranza, il difensore della salute degli italiani».

Inutile chiedere a D’Alema se nella offensiva di Renzi possa pesare in qualche modo pure la sua aspirazione al ruolo di segretario generale della Nato, anche perché c’è il rischio di scomodare altre analogie e tornare a quando fu Renzi a negare a D’Alema l’approdo a Bruxelles come Alto rappresentante per la politica estera della Ue. Tempi lontani. Sebbene le conseguenze di quella rottura sembrino ancora fresche: «Per carità, se Renzi pensasse che c’entro qualcosa nelle discussioni di queste ore la situazione non potrebbe che peggiorare».

Restano pochi giorni per scoprire se, come pensa d’Alema, si troverà la quadra o se andrà in scena l’ennesimo cupio dissolvi della sinistra italiana. L’ex premier storce la voce: «Io ormai faccio il professore e il consulente, lo sanno tutti, per il mio lavoro andrò presto in Africa». E anche questa, in fondo, si è già sentita da qualche parte.