di Maddalena Tulanti
Nell’ultimo libro di Massimo D’Alema, “Grande è la confusione sotto il cielo. Riflessioni sulla crisi dell’ordine mondiale”, edito da Donzelli Editore, c’è un faro che illumina e indica le vie ai viandanti occidentali che si muovono per le strade del mondo temendo di vivere gli ultimi anni della democrazia. Il faro si chiama “gestione della transizione”, perché non c’è dubbio, per D’Alema, che l’Occidente dovrà abituarsi a non essere più l’unico bello del reame, ma dovrà dividere il suo potere con tanti altri protagonisti. Questo fenomeno ha anche un nome, si chiama “multilateralismo”. E l’Europa ne può esserne la protagonista assoluta. Di questo parliamo nella conversazione-intervista con il presidente della Fondazione di cultura politica, Italianieuropei, che sta rientrando in Italia via mare dal Peloponneso.
Presidente D’Alema, cosa ha significato per l’Europa e l’Italia la decisione di finanziare la ripresa con il Recovery Fund?
“E’ stata una svolta molto importante. L’Europa ha messo finalmente in campo una politica espansiva dopo molti anni in cui era stata privilegiata quella di austerità. Ma la cosa più importante dal punto di vista politico è stata la svolta tedesca. La Germania era il vero capo dei Paesi “frugali”, e li ha abbandonati. E’ anche vero che la svolta tedesca nasce dalla situazione internazionale. Dal fatto cioè che la Germania ha capito che la sua stessa potenza economica non avrebbe retto in un contesto internazionale di guerra commerciale fra Cina e Stati Uniti, un contesto estremamente sfavorevole per un’economia esportatrice come quella tedesca. A Berlino quindi c’è stata una scelta di strategia, ma anche un forte interesse nazionale a sostenere la ripresa europea, compresa quella dell’Italia, essendo la nostra economia fortemente intrecciata a quella tedesca, con la nostra piccola e media industria che lavora per esempio al settore dell’auto. In definitiva, se crollasse il sistema Italia ci sarebbe un danno anche per la Germania. Insomma l’Europa ha ritrovato non solo le sue ragioni ideologiche e ideali, pure importanti, ma anche quelle materiali. Da qui l’importanza della svolta”.
La Germania ha quindi accettato quel ruolo di leadership in Europa che in tanti le hanno chiesto di assumere negli ultimi anni?
“Sì. Dopo essere stata molto riluttante e avara nei confronti dell’Europa la Germania ha assunto un ruolo di leadership anche in modo generoso. Forse la vera svolta europea è stata questa. E l’Italia ha avuto il merito di sostenerla. Non è che potesse fare molto di più, ma quello che doveva fare il nostro Paese l’ha fatto”.
Si può quindi sperare in un salto di qualità anche in direzione di un’unione politica europea ancora più stretta?
“Questo non lo sappiamo, possiamo solo sperarlo. Sappiamo invece che ora bisogna fare un uso intelligente di queste risorse. Siamo di fronte a una grande sfida per tutti, e per il nostro Paese. Ora ci si deve concentrare a usare quelle grandi risorse economiche per sostenere la crescita, perché sia effettivamente la leva per un cambiamento vero per l’economia italiana. Usare bene tutti questi soldi, non disperderli: ora bisogna dedicarsi soprattutto a questo”.
Questa svolta europea sembra che sia l’unica cosa positiva accaduta negli ultimi mesi nel mondo: intorno a noi ci sono solo crepe, tutte le alleanze internazionali sono in crisi, dalla Nato all’Onu, alla Lega Araba, al Nafta.
“E’ vero, c’è una grave crisi del sistema delle relazioni internazionali che porta con sé anche un inasprimento delle tensioni. In questo contesto l’unica nota positiva è stata la ripresa dell’iniziativa europea, soprattutto sul terreno della politica economica e dello sviluppo. Questa ritrovata solidarietà europea mi sembra il dato da cui ripartire, il resto è piuttosto problematico. Oltretutto siamo legati alle prospettive delle elezioni americane, ma non nel senso che se vincono i democratici tutto cambia. Purtroppo io penso che le tensioni fra Usa e Cina, per esempio, sono destinate a durare indipendentemente dall’esito delle elezioni americane. Però è molto importante tornare ad avere una leadership americana che sia in grado di parlare con l’Europa. Bisogna porre fine al disastro di questa amministrazione, che è stata dannosa per gli Stati Uniti e per il resto delle democrazie”.
Dal suo libro si capisce che l’Occidente ha consumato la sua scorta di fascino verso il resto del mondo. Cosa ne ha eroso l’egemonia culturale, economica e politica? Secondo lei abbiamo in Occidente la percezione di questo declino?
“Io penso che l’attuale amministrazione americana sia una manifestazione di questo declino. Se Trump ne sia consapevole non lo so, però se un’amministrazione nasce con la parola d’ordine di tornare a fare grande l’America, in qualche modo comprende che la sua grandezza è in calo. E la percezione di un relativo declino esiste certamente nel mondo occidentale. Poi ci sono diverse reazioni a questa percezione. Una volta un pensatore americano, presidente del Council on foreign relations, una delle istituzioni culturali più importanti della politica estera americana, ha detto che l’Occidente avrebbe bisogno di una leadership capace di ridimensionare il proprio ruolo senza disturbare il resto del mondo. Io penso che il ruolo dell’Occidente sia destinato a essere ridimensionato. Il problema vero è come si gestisce questo passaggio da un mondo centrato sull’Occidente, i suoi valori, i suoi modelli, a un mondo multilaterale. La reazione occidentale può essere quella di respingere questa prospettiva persino attraverso l’uso della forza o comunque inasprendo tutte le relazioni internazionali. Oppure potrebbe essere quella di gestire con intelligenza la transizione verso un mondo multilaterale in cui però cercare di far contare il nostro patrimonio di valori. Il grande problema riguarda la cultura della classe dirigente. Oggi nel mondo occidentale è molto forte purtroppo quella spinta che viene chiamata sovranista, che in realtà è una reazione subalterna dal punto di vista culturale. Questa tendenza in cui si reagisce mostrando i muscoli, secondo me, è una linea perdente nel medio periodo e può creare grandissimi danni. E’ la tesi di fondo del mio libro. Bisogna invece gestire questa transizione attraverso un dialogo che non significa cedere sui nostri valori, ma sicuramente avere una visione più inclusiva del mondo, che tenga conto anche dei valori degli altri”.
Dopo il 1989 era parso che iniziasse una nuova era, in cui la democrazia e la libertà sarebbero trionfate. Ed è vero che il numero di Paesi liberi negli ultimi quarant’anni è aumentato passando dal 29 al 45%. Però si sono susseguite guerre, terrorismo, caos. Cosa non ha funzionato?
“Bisogna dire che a partire dal 1989 e almeno per quindici anni c’è stato il massimo di successo del mondo occidentale. Il crollo del sistema sovietico è stato l’avvio dell’espansione dei sistemi democratici, nell’Europa dell’Est e, per riflesso della fine della guerra fredda, anche nell’America Latina, dove il sostegno americano alle dittature è venuto meno perché non era più motivato dall’anticomunismo. A un certo punto è sembrato che persino il mondo arabo potesse esserne coinvolto, anche se poi questa si è rivelata un’illusione. Ma questo processo c’è stato. E si è espresso anche in due forme di pensiero, come ricordiamo, l’una, quella di Francis Fukuyama, secondo il quale la storia umana finiva sfociando in un’universalizzazione del modello occidentale, con l’economia di mercato e la democrazia liberale che diventavano il modello accettato da tutti; e l’altra visione, più pessimistica, ma che si è rivelata alla lunga più fondata, quella di Samuel P. Huntington, per il quale invece la fine delle ideologie avrebbe aperto conflitti di civiltà. E’ quello che è accaduto, perché una parte del mondo ha percepito l’idea di un’espansione del modello occidentale come una minaccia alle proprie identità culturali. L’islamismo è stata forse la forma più drammatica di questa reazione; ma c’è stato anche anche il nazionalismo cinese e di altri Paesi asiatici. Il fascino dell’Occidente è andato progressivamente in crisi nel corso del nuovo millennio fino ad arrivare alla crisi del 2007/2008 in cui quel modello di sviluppo è andato in frantumi. E da quella crisi non siamo mai sostanzialmente usciti. Quindi è vero che le democrazie sono aumentate, ma ad un certo punto hanno perso fascino. Venti anni fa nessuno avrebbe dubitato che il leader del mondo era Clinton. Oggi le leadership dei Paesi non democratici sono molto più forti, molto più prestigiose. La tendenza all’espansione delle democrazie si è bruscamente fermata. E anche quei Paesi che formalmente sono rimasti democratici hanno preso una piega di democrazie fortemente autoritarie, vedi la Turchia o la Russia. Mentre nel mondo arabo sono tornate le autocrazie. Accade questo perché i modelli autoritari producono classi dirigenti più forti e sufficientemente stabili perché possano perseguire obiettivi di medio periodo. La fragilità delle democrazie nasce dal compromesso sociale su cui si fondavano, la crescita delle diseguaglianze e la concentrazione della ricchezza e del potere hanno tolto credibilità ai sistemi democratici e alle classi dirigenti tradizionali aprendo la strada alla crescita dei populismi”.
È quindi iniziato il secolo post americano?
“E’ un fatto che ovunque nel mondo il peso degli americani si sia ridotto. Nel Medio Oriente per esempio ha ripreso ruolo la Russia, che sembrava un paese emarginato. E questo riporta al ruolo dell’Europa. Non si tratta per l’Europa di giocare una partita di autonomia dagli Usa. L’Europa è stata forte quando ha spinto gli americani a una politica meno muscolare, più intelligente. Quando ha condizionato gli Usa con la forza della sua tradizione diplomatica, la sua cultura, la sua visione del mondo. In questo momento c’è il problema di definire una strategia del mondo occidentale, la pressione americana spinge perché essa sia una strategia di chiusura, di ostilità verso i cinesi. E io temo che questo porti a una frattura del mondo, spingendo la Russia a un rapporto di collaborazione sempre più stretto con la Cina. Ma questo nuovo bipolarismo fra Occidente e tutti quelli che non sono occidentali, rischia di essere molto diverso da quello con la Russia sovietica perché quello era un paese in declino. Oggi se noi mettiamo insieme le risorse naturali e militari della Russia con la potenza innovatrice dell’economia cinese ci troviamo di fronte un antagonista molto più pericoloso. E poi perché dovremo averli come antagonisti? Non c’è nessuna ragione. Io trovo per esempio che ci sia molto isterismo in questa campagna sull’espansionismo cinese. Certo la Cina è una grande potenza, ma io penso che la minaccia del 5G sia una montatura, dal punto di vista della sicurezza non esiste nessuna minaccia. Nel senso che non aggiunge nulla alla situazione attuale. Cioè anche oggi attraverso Internet, la rete ecc. ecc, tutti possono ascoltare tutto. Io penso che questo isterismo anticinese non serva a niente e sia pericoloso”.
Ci avviamo verso la de-globalizzazione?
“La de-globalizzazione è il ritorno alla sovranità degli stati nazionali. Nel momento in cui si mettono i dazi, si controllano i confini, si limitano i movimenti delle persone ci avviamo verso questo nuovo uno stato del mondo. La globalizzazione è la libera circolazione delle persone, delle merci, dei capitali, delle idee. Questa tendenza era già iniziata qualche anno fa, ma la pandemia ne ha accelerato il processo”.
Quanto è negativo questo stato di cose?
“Io penso che la globalizzazione sia una tendenza che non si possa rovesciare. Ritengo che andremo verso un mondo globalizzato dove però il peso delle nazioni tornerà a essere più rilevante di quanto non sia stato fino ad oggi. In una certa fase si era diffusa e aveva avuto successo quella teoria definita “glocal”, secondo la quale ci sarebbe stata la globalità e poi la dimensione locale. Una corrente di pensiero molto forte nel mondo sviluppato. Secondo me ora ci avviamo ad avere un mondo che resterà in una certa misura globalizzato, ma nel quale l’elemento nazionale tornerà ad avere un peso importante. Tutto questo diventa negativo se questo elemento nazionale degenera in forma di nazionalismo, di ostilità reciproca, se non si instaurano forme di cooperazione. La questione è sempre quella di governare i processi. I processi non governati non sono una cosa positiva, compreso, da questo punto di vista, la globalizzazione finanziaria. La visione cosiddetta di deregulation, in cui ogni processo viene abbandonato a se stesso, non è più sostenibile. La vera alternativa è tra una globalizzazione governata oppure i ritorni dei nazionalismi”.
Mediterraneo: partiamo dal caos seguito alle cosiddette primavere arabe. Perché il discorso di Obama al Cairo che aveva suscitato nuove speranze alla fine è stato un grave fallimento?
“Intanto Obama quel bel discorso non è stato in grado di tradurlo in azione politica. In secondo luogo quel movimento cosiddetto delle primavere arabe ha avuto l’effetto di rafforzare l’islam politico. Era abbastanza prevedibile: nel momento in cui passi alla democrazia, non potevano esserci molti dubbi sul fatto che le elezioni le avrebbero vinto gli islamisti. L’Occidente si è così trovato di fronte al fatto che le primavere arabe hanno destabilizzato i sistemi autocratici, le dittature militari di cui erano saldamente alleati, e hanno portato al potere le elite islamiste che avevano una forte carica anti occidentale. Questo è stato l’effetto della democratizzazione. A quel punto l’Occidente ha cambiato registro e ha salutato il colpo di stato in Egitto con festeggiamenti perché tornavano i militari con i quali si poteva continuare a fare affari. La democrazia aveva un prezzo che era quello di avviare un dibattito politico, un processo di integrazione con le forze politiche di matrice islamica. Non c’è democrazia nel mondo arabo senza l’islamismo. Era un’idea ingenua quella secondo cui nel mondo arabo potesse affermarsi il modello democratico occidentale. E il discorso di Obama un po’ ingenuo lo era”.
Libia: c’è ancora spazio per un ruolo forte dell’Italia dopo l’arrivo di nuovi attori come la Turchia e la Russia?
“Ci poteva essere un ruolo dell’Italia dieci anni fa. E i libici erano interessati a questo processo, ma non hanno trovato sponde. Non essendoci stato, ora l’Italia deve fare in modo che ci sia un ruolo dell’Europa. O vinciamo tutti o perdiamo tutti”.
Il conflitto israeliano palestinese sembra dimenticato: perché?
“Noi lo abbiamo dimenticato, ma non gli arabi. Resta nel loro sentimento ed è una delle fonti di ostilità verso l’Occidente. Sentimento fra l’altro fondato. Il fatto è che sono accaduti avvenimenti che hanno cambiato completamente la geopolitica nella regione e nel mondo occidentale. Da una parte i conflitti esplosi nel mondo arabo, la guerra civile in Siria, la guerra nello Yemen, il conflitto crescente tra i paesi del Golfo e l’Iran, hanno spostato il focus. Innanzitutto quello degli arabi. I sauditi hanno cercato un rapporto con Israele in chiave anti-Iran. Cosa mai avvenuta prima. C’era sempre stata più o meno un’alleanza del mondo arabo a sostegno dei palestinesi e oggi non c’è più. Poi c’è stato un secondo elemento, ed è stato la crescita dell’islamismo che ha creato in Occidente un crescente sentimento anti-islamico. E di fronte alla minaccia islamica c’è stato un avvicinamento tra il fondamentalismo cristiano, in particolare protestante, soprattutto negli Usa, e il mondo ebraico. Ne è nata una sorta di fronte comune fra fondamentalismo cristiano e fondamentalismo ebraico in chiave anti islamica. Non solo negli Usa, ma anche in altri Paesi occidentali, una parte del mondo ebraico si è schierato con la destra. E prima non era così. Il mondo ebraico era generalmente schierato a sinistra, anche per la Memoria, per le persecuzioni antisemite che hanno avuto una forte matrice di destra nella cultura e tradizione europea, anche americana. Si sono aperte così faglie culturali molto profonde e i palestinesi alla fine si sono trovati ad essere isolati dentro il mondo arabo mentre hanno perduto il sostegno di una parte importante delle opinioni pubbliche del mondo occidentale”.
Qual è ora la situazione?
“Di questi cambiamenti ha approfittato la destra israeliana con la sua politica sostanzialmente liquidatoria della questione palestinese. Una politica che ha avuto l’opposizione di una minoranza democratica in Israele in forme perfino drammatiche. Come l’appello di Yeoshua, il più grande scrittore e intellettuale israeliano, che ha chiesto all’Europa di boicottare il suo Paese perché si sta distruggendo il sogno di Israele democratico trasformandolo in un Sudafrica prima di Mandela, con cittadini di serie A, gli ebrei, quelli di serie B, gli arabi israeliani, e poi quelli di serie C, i palestinesi, che vivono sotto occupazione militare, privi di qualsiasi diritto, civile, di proprietà, e perfino del diritto alla sicurezza come dimostrano le tante vittime civili. L’Europa in questi ultimi mesi ha espresso una forte opposizione al progetto di annessione dei Territori, di Gerusalemme, della valle del Giordano. Anche se la capacità di iniziativa europea è bloccata dal veto pro Israele che viene dalla destra più radicale. E’ paradossale che il principale punto di appoggio in Europa di Israele sia Orban. Il progetto ora è fermo perché persino Netanyahu, anche per le sue vicende personali interne, non ha avuto il coraggio di portarlo avanti. Ma non si vede come l’idea di uno Stato palestinese possa prendere consistenza senza una svolta radicale nella politica israeliana di cui non ci sono segni. Tanto che il vero tema di cui parlano i palestinesi oggi è se abbia senso tenere in piedi l’Autorità palestinese, e se ormai non debbano accettare uno scenario sudafricano. Cominciando cioè a lottare per i loro diritti in un regime di occupazione militare. A questo si aggiunge un dato. Siamo noi cittadini europei che manteniamo i palestinesi economicamente sollevando Israele dall’obbligo di provvedere alle popolazioni dei territori occupati dal suo esercito. Non so fino a quando. A un certo punto gli europei potrebbero dire, scusate ma perché dobbiamo pagare noi?”.
L’Africa è il serbatoio delle nostre paure: quale è la politica giusta verso il continente più giovane del pianeta?
“L’immigrazione verso l’Europa è veramente minima rispetto a quelle inter-africana. Noi dovremmo aiutare un processo di integrazione fra gli Stati africani e sostenere l’Unione africana a crescere come un grande organismo regionale aiutando la formazione della classe dirigente. E favorendo anche una emigrazione intelligente disposta poi a tornare nel continente”.
La pandemia provocherà una vera svolta nel modo di vivere? Saremo migliori o peggiori?
“Si dice sempre così dopo ogni importante avvenimento. Sostanzialmente non lo sa nessuno. Alcune cose sono cambiate in meglio, abbiamo parlato per esempio del risveglio dell’Europa. Altre in peggio. Per esempio in alcune parti del mondo la pandemia ha favorito tendenze autoritarie, anche giustificate dall’emergenza, ma che rischiano di rimanere oltre l’emergenza. E’ presto per fare un bilancio. Io spero che il più grande cambiamento positivo che possa portare la pandemia è un cambio di leadership negli Usa. Per il resto temo che dovremo fare un bilancio serio solo alla fine dell’anno anche perché pende il timore che possa esserci una seconda ondata del virus. Quindi è un po’ presto. Non voglio dire come rispose Ciu En Lai a chi gli chiedeva un giudizio sulla rivoluzione francese: che era troppo presto. Ma è veramente presto”.