D’Attorre: caro Pd, il nodo da sciogliere è sempre lo stesso: l’identità

Politica e Primo piano

Pubblicato su Strisciarossa.it

di Alfredo D’Attorre

La vittoria del centrosinistra in Emilia-Romagna e l’annuncio di Zingaretti di voler costruire un nuovo soggetto politico oltre l’attuale Pd sono due notizie incoraggianti. Aprono l’opportunità di una nuova fase della politica italiana, in cui un’egemonia di lungo periodo della destra non sia più un destino segnato. Allo stesso tempo, non sono esenti da insidie, che rischiano invece di prolungare e consolidare gli attuali rapporti di forza politici nella società italiana.

Il voto emiliano-romagnolo ha indubbiamente punito l’arroganza di Salvini (il quale non ha imparato la lezione che trasformare un’elezione in un referendum su di sé è il modo migliore per esserne travolti) e ha premiato la concretezza e la buona amministrazione di Bonaccini. Si sono manifestati anticorpi profondi ancora presenti in quella regione, riattivati anche dagli eccessi sconcertanti del leader leghista e rivelatisi in grado di arginare un’onda di destra che a un certo punto della campagna elettorale è sembrata inarrestabile. Ma quell’onda non si è ritirata, né in Emilia-Romagna, né tantomeno nel resto del Paese. A livello nazionale, come conferma anche il voto della Calabria, i consensi che la Lega perde rispetto ai suoi picchi di qualche mese fa vengono recuperati quasi integralmente dalla Meloni, che oggi i sondaggi segnalano a un livello praticamente doppio rispetto alle europee di fine maggio 2019. Inoltre, la geografia sociale e territoriale anche del voto emiliano-romagnolo conferma una difficoltà ormai strutturale del centrosinistra, quella nelle aree interne e nei centri più piccoli, segnati da livelli più bassi di reddito e più alti di disoccupazione.

La vittoria in Emila-Romagna rischia perciò di trasformarsi in una pericolosa illusione ottica se convince il centrosinistra di poter andare avanti senza affrontare cambiamenti profondi. Fortunatamente, le voci più sagge del Pd hanno almeno sedato subito il riemergere di pulsioni autolesioniste sulla legge elettorale. Dopo l’esito del voto emiliano, i vedovi inconsolabili del maggioritario all’italiana, non contenti dei guasti degli ultimi 25 anni, hanno ripreso l’offensiva perché il centrosinistra faccia naufragare la positiva intesa maturata con il M5S su un sistema proporzionale con un robusto sbarramento anti-frammentazione. A loro giudizio, siccome in una regione delle nove che hanno votato dopo le ultime elezioni politiche il centrosinistra è riuscito a sconfiggere la Lega senza l’apporto del M5S, bisognerebbe virare sul sistema elettorale che chiedono Salvini e la Meloni: una genialata che avrebbe l’effetto di minare ulteriormente le basi politiche dell’attuale governo per andare a elezioni con un sistema che presumibilmente consegnerebbe alla destra una maggioranza sufficiente per cambiare da sola la Costituzione a suo piacimento. Al contrario, sarebbe ora una scelta intelligente quella di provare ad approvare la nuova legge elettorale proporzionale, almeno in un ramo del Parlamento, prima del referendum costituzionale fissato per il 29 marzo. In questo modo, i cittadini potrebbero pronunciarsi avendo presente il quadro istituzionale complessivo che si profila e la presumibile vittoria dei Sì diventerebbe anche una sorta di legittimazione popolare del nuovo sistema elettorale.

Anche il coraggioso annuncio di Zingaretti di voler impegnare il Pd nella costruzione di un”partito nuovo” può essere soggetto a svolgimenti molto diversi. È senz’altro positivo che si riconosca la necessità di una svolta e di una novità politica a tutto tondo. Ma quale deve essere la natura di questa novità? Il Pd è stato costruito fin dal principio sulla base del mito dell’apertura e della “contendibilità”. Il punto è che l’apertura ha dimostrato di non poter essere il surrogato di un’identità culturale e di una visione della società. Se non si affronta finalmente questo nodo, il rischio è quello di mettere in moto (come in parte avvenne dopo lo scioglimento del PCI) una carovana confusa ed esposta a ogni condizionamento esterno. Un’avventura che partirebbe all’insegna del “cambiare tutto”, ma che poi rischierebbe di lasciare irrisolte le due questioni principali che hanno progressivamente minato l’autonomia politico-culturale della sinistra negli ultimi decenni: da un lato, lo scivolamento verso un “progressismo neo-liberale” di impronta liberista sul terreno economico-sociale, dall’altro la permeabilità all’eterodirezione da parte di testate e gruppi editoriali in grado di imporre la loro agenda e le loro priorità. Un serio congresso ri-costituente dovrebbe anzitutto affrontare questi due problemi cruciali, con tutto ciò che ne consegue in termini di ripensamento della cultura politica e del modello organizzativo.

Romano Prodi ha invocato un cambiamento rispetto a un partito in cui decidono «dieci persone», riproponendo l’idea di un soggetto politico senza tessere. Prodi, però, e con lui Parisi e i teorici della legittimazione diretta del segretario tramite primarie aperte dovrebbero ricordare che l’estremizzazione di questo modello ha aperto la strada a leadership che hanno deciso tutto non in dieci, ma in uno. Senza contare poi che, dal punto di vista dei cittadini italiani e non solo degli addetti ai lavori, il vero problema del Pd e del centrosinistra è stato che cosa è stato deciso, prima ancora che chi lo ha deciso…

È senz’altro giusto lanciare un congresso costituente aperto, in grado di attrarre la partecipazione non solo dei militanti che si sono allontanati dal Pd negli ultimi anni, ma anche di energie nuove provenienti dall’associazionismo, dal mondo del lavoro, dalle amministrazioni locali. Il problema è come costruire un processo reale di coinvolgimento e di partecipazione consapevole, funzionale alla costruzione di una nuova identità politico-culturale. Ad esempio, le piazze delle Sardine hanno dato voce alla reazione civile di un pezzo reale della società italiana e, nel contempo, hanno espresso il bisogno di una politica diversa a sinistra. Sarebbe miope non provare a capire questo fenomeno, ma davvero si può chiedere ai giovani che lo hanno innescato di offrire loro da soli una risposta culturale e programmatica compiuta alle domande che quelle piazze hanno espresso? O ancora: gli amministratori locali sono ormai ciò che resta dell’antico insediamento territoriale della sinistra e, in quanto tali, un riferimento ancora più prezioso. Ma possiamo pensare di affrontare uno spiazzamento ideologico e sociale della sinistra, che ha una dimensione quasi ‘planetaria’ ed ‘epocale’, riproponendo 25 anni dopo la formula del “partito dei sindaci”?

Non è più tempo di scorciatoie o di furbizie. E non basteranno stavolta neppure semplici operazioni di restyling organizzativo o comunicativo. Diversi, ad esempio, sia nel Pd sia fuori dal Pd, considerano dirimente il cambio del nome del principale soggetto del centrosinistra, affinché il suo congresso possa svolgere una funzione riaggregante. Ma un cambio del nome, per avere senso e non ridursi a una pura operazione di marketing, è più la conseguenza che la premessa di un processo politico reale. Il vero punto decisivo, quello in grado anche di imprimere una direzione chiara al governo e alla legislatura, è se nel corso del 2020 ci sarà un appuntamento democratico serio nei contenuti e capace di attrarre una parte significativa della sinistra oggi dispersa. E, soprattutto, se questo appuntamento scioglierà finalmente il nodo dell’identità politico-culturale di fondo: continuità su una linea di progressismo neo-liberale oppure svolta in chiave modernamente socialdemocratica ed ecosocialista?

Peraltro, se ci si libera delle caricature e si provano a comprendere le spinte storiche reali che stanno dietro fenomeni politici impensabili fino a qualche anno fa, come i movimenti giovanili a sostegno di Corbyn e di Sanders, una prospettiva ecosocialista non è del tutto incompatibile con l’idea di un nuovo “riformismo comunitario”, su cui esponenti del cattolicesimo democratico e sociale, ma non solo, stanno iniziando a riflettere in maniera innovativa. E lo stanno facendo a partire dalla consapevolezza che il mondo post-crisi, la rivoluzione digitale e l’emergenza ambientale rendono anacronistiche le ricette liberal-liberiste del trentennio precedente. Questo dialogo fra un’ispirazione neo-socialdemocratica ed ecosocialista e un nuovo “riformismo comunitario” anti-liberista può davvero costruire il baricentro culturale del “partito nuovo” e far rivivere in modo più credibile quella in fondo che era l’idea più valida alla base della nascita del Pd oltre 10 anni fa, ossia il venir meno di uno steccato fra laici e cattolici. E l’apporto di un cattolicesimo sociale rinnovato può essere prezioso anche per evitare che una visione economica neo-socialdemocratica assuma solo l’intonazione di uno statalismo dall’alto, sottovalutando il ruolo essenziale delle comunità, della cooperazione , dell’auto-organizzazione sociale.

Il “partito nuovo” deve poi trovare il modo di far partecipare e “sentire a casa” le persone, come ha scritto efficacemente Goffredo Bettini. C’è qui qualcosa che va al di là delle formule organizzative e del dibattito ormai stantio tra partito leggero o pesante. È qualcosa che ha a che fare con un sentimento di comunità, di appartenenza a una cultura e a una visione condivisa delle cose, di radici profonde da riscoprire e, naturalmente, anche di essere riconosciuti e di contare, di sentirsi parte di un movimento reale che si è contribuito a determinare. Una comunità in grado di dare una risposta sia all’enorme accrescimento delle potenzialità di discussione e partecipazione legate alla rivoluzione digitale, sia al senso di isolamento e smarrimento che le trasformazioni contemporanee producono. Non certo, quindi, un partito senza iscritti e senza legami tra di loro, ma nemmeno un corpo chiuso e autoreferenziale, incapace di interrogare e coinvolgere saperi ed energie esterne o di costruire luoghi aperti in cui formarsi un’idea su tanti aspetti di una realtà sempre più mutevole e sfaccettata. Un partito che recupera un “nucleo ideologico” condiviso, che sa qual è la sua direzione di marcia fondamentale, può diventare anche molto più pragmatico sul piano delle singole soluzioni concrete e molto più duttile sul terreno della tattica politica, perché non è più l’ultima scelta contingente o l’ultimo editoriale di Repubblica a decidere quale sia la sua “anima”.

Un “partito nuovo” con un asse politico-culturale chiaro è anche la condizione per incidere al meglio sulla crisi ed evoluzione del M5S, ormai già prosciugato della sua componente più conservatrice. La parte di elettorato che resta o che si è rifugiata nell’astensione difficilmente voterà quel nuovo campo democratico, che oggi si teorizza, se questo assomiglierà al vecchio Pd e al vecchio centrosinistra da cui essa è scappata. Si tratta allora di contrastare i residui di antipolitica e di giustizialismo che permangono nel Movimento, ma di non puntare in maniera miope o arrogante sulla sua umiliazione o deflagrazione. Questa può essere magari una strada per piegare parlamentari interessati a che la legislatura vada avanti comunque, ma non per convincere quegli elettori che hanno riconosciuto ai grillini il merito di aver sollevato una questione sociale che la sinistra sembrava aver dimenticato. E se l’indebolimento politico dei 5S significherà la loro ‘normalizzazione’ e l’abbandono di istanze giuste che essi, sia pure talora con forme discutibili, avevano sollevato (dalla critica della governance economica europea alla revisione delle concessioni autostradali, dal tema dell’acqua pubblica a nuovi strumenti di intervento pubblico nell’economia, per fare alcuni esempi), ciò non renderà il governo più forte nel Paese, ma rischierà di rinchiudere il livello di consenso delle forze di maggioranza nei confini del vecchio centrosinistra. Si tratta, invece, di impadronirsi di questi temi, di depurarli di ogni coloritura demagogica e di dar loro una credibile declinazione di governo. Solo così il nuovo campo democratico non sarà la somma di due debolezze che si sono asserragliate nel Palazzo, ma una sintesi nuova e competitiva nel Paese.

Insomma, tra la svolta politica dell’agosto scorso e il voto emiliano-romagnolo si è aperta una finestra di opportunità per cambiare davvero e mettersi nelle condizioni di sfidare l’egemonia della destra. Ma, dentro e fuori il Pd, per provare a farcela servono umiltà e coraggio, rinunciando a grandi e piccole rendite di posizione e ragionando con la lungimiranza richiesta da questa complicata epoca di transizione che stiamo vivendo.