Bersani: caro Draghi dì qualcosa di sinistra, nei ceti popolari c’è disagio

Politica e Primo piano

Intervista a The Post Internazionale

di Riccardo Barenghi

Pier Luigi Bersani ha una lunga storia politica alle spalle, è stato per anni un militante e poi dirigente del Pci, ha guidato la Regione Emilia-Romagna negli anni Novanta, ha fatto il ministro nei due governi diretti da Romano Prodi, è stato leader del Pd dopo Walter Veltroni e prima di Matteo Renzi, alla fine ha lasciato quel partito per dar vita insieme a D’Alema, Speranza e altri a una nuova formazione politica denominata Articolo Uno. Oggi è ancora uno dei dirigenti più ascoltati nella sinistra italiana, anche grazie alle sue storiche metafore, che ne hanno fatto un personaggio televisivo, come quella della «mucca in corridoio» che poi era la destra ma che la sinistra non voleva vedere. Con lui parliamo della guerra e non solo di quella.

Allora, Bersani, a che punto è la notte?

«Al momento mi pare molto buia, direi nera. Ma non bisogna scoraggiarsi, prima o poi si aprirà un negoziato che dovrà portare al cessate il fuoco e poi alla pace».

Nel frattempo, il leader ucraino ha parlato anche di fronte al nostro Parlamento, dopo essere intervenuto a quello britannico, al Congresso americano, al Bundestag tedesco e alla Knesset israeliana. Che impressione le ha fatto?

«È stato un discorso importante perché moderato: non ha fatto riferimenti alla nostra storia come aveva fatto, sbagliando, in Israele. Ha toccato i tasti giusti per noi italiani: il cuore, la famiglia, l’accoglienza, l’umanità. Insomma, ha insistito più sul lato sentimentale che non su quello bellico. E non si è spinto su altre richieste, come quella sulla No Fly Zone che per l’Occidente è irricevibile, visto il rischio che comporterebbe: una guerra mondiale e quindi nucleare. Invece ha chiesto di aumentare le sanzioni, e ha fatto bene».

E la reazione del Parlamento italiano è stata positiva?

«Molto positiva, l’Italia vuole rafforzare il suo aiuto alla resistenza ucraina, come ha detto il premier Mario Draghi subito dopo il discorso di Zelensky».

Quindi intensificando l’invio di armi a Kiev? Ma questo non rischia di aggiungere guerra a guerra, in una spirale di morti e distruzioni?

«lo su questo sono molto netto: non possiamo decidere noi se loro devono resistere o no. Trovo molto cinico il discorso di chi dice che è meglio se si arrendono. Solo loro possono deciderlo, ma finché non lo decidono la nostra linea è aiutarli ad aiutarsi. Che significa mandare armi e intensificare le sanzioni contro Putin, ma senza andare oltre».

Che vuol dire oltre?

«Non dobbiamo promettere agli ucraini altre iniziative, come l’entrata in guerra dei Paesi della Nato. Sarebbe la catastrofe mondiale. Quindi bisogna evitare a tutti i costi che si verifichi un’escalation: insomma sì alle armi, sì a sanzioni più dure, sì ovviamente all’accoglienza dei profughi, ma poi ci si ferma e si negozia la pace. Altrimenti, bisogna imboccare un’altra strada».

Cioè la resa del popolo ucraino?

«Esatto, ma questa opzione io non la prendo nemmeno in considerazione perché ripeto non siamo noi che possiamo dir loro di arrendersi. Invece possiamo scegliere di rinunciare totalmente al gas russo: ci mettiamo al freddo, chiudiamo un po’ di fabbriche e non diamo più un soldo a Putin. Anche questo è un modo per aiutare la resistenza, ma nessuno di noi è disposto a fare un sacrificio del genere, rinunciando al proprio modello di vita».

Nel frattempo però aumentiamo le spese militari, lei ha votato a favore?

«Nel tragico, spunta sempre il ridicolo. Si fa polemica su un ordine del giorno che sostanzialmente conferma un impegno preso nel 2014 e sempre disatteso. Se parliamo seriamente, io penso che dopo l’Ucraina il mondo non sarà come prima e l’Europa dovrà darsi un nuovo modello di difesa».

E quindi si continuerà a combattere. Ma così non c’è il rischio concreto di un’escalation che porti alla catastrofe?

«È un rischio che non si può eliminare del tutto, ma va governato. Se adesso c’è una resistenza si può immaginare realisticamente che a un certo punto arrivi il momento giusto per negoziare. Magari quando il presidente russo sarà più debole, grazie agli ucraini che resistono e alle sanzioni dell’Occidente, e si renderà conto che ovviamente non può perdere ma non può neanche vincere. In quel preciso momento le armi dovranno lasciare il posto al negoziato».

Oggi però una trattativa seria non si vede nemmeno all’orizzonte. Lei invece la vede?

«La pista di questo negoziato è già tracciata: neutralità dell’Ucraina, avvio delle procedure per il suo ingresso nell’Unione europea e discussione molto seria sul destino di Donbass, Donetsk, Crimea. Su questo punto abbiamo di fronte diverse soluzioni da calibrare».

Pensa che Putin possa accontentarsi o invece voglia prendersi tutta l’Ucraina?

«Il presidente russo è mosso da un revanscismo aggressivo e imperialistico. Possiamo andare a cercare tutte le responsabilità dell’Occidente che ha consentito questa deriva, ma ormai siamo di fronte a questo fatto evidente».

E lei crede sia possibile costringere Putin a cambiare linea?

«Sì: la resistenza degli ucraini, le sanzioni più dure e l’isolamento internazionale non potranno non condizionare le sue scelte. E penso anche che toccherà alla Cina scendere nel campo delle trattative. Da Deng in poi, i cinesi vogliono un mondo tranquillo, così che loro abbiano tutto il tempo necessario per crescere. Non a caso stanno comprando materie prime ovunque, materie di cui la Russia è ricchissima. Se invece il mondo si agita, i loro piani di espansione economica vanno a ramengo. Quindi Pechino ha tutto l’interesse a dare una mano per raggiungere la pace».

E gli Stati Uniti nel frattempo che dovrebbero fare? Il presidente Biden sta dando l’impressione di soffiare sul fuoco, attaccando violentemente Putin tutti i giorni.

«Gli Usa sono sempre preoccupati dal fatto che l’Europa possa trovare una sponda con la Russia. Ma sbagliano, così come hanno sbagliato ai tempi di Michail Gorbaciov: non aver messo in campo un Piano Marshall per aiutare la Russia in quel momento è stato un errore storico. Ma se lo dici, ti accusano di giustificare Putin: purtroppo la madre degli idioti è sempre incinta».

E invece cosa dovremmo fare?

«Dobbiamo imparare la lezione della storia, altrimenti ci muoviamo come gattini ciechi. E la storia ci racconta che abbiamo marciato a zig zag, una volta coinvolgendo gli sconfitti nel processo di pace (Congresso di Vienna), un’altra escludendoli e punendoli severamente dopo la Prima Guerra Mondiale, favorendo così l’ascesa di Hitler. Poi, dopo il secondo conflitto, siamo tornati alla ragionevolezza, aiutando Germania e Italia a ricostruirsi. Ma quarant’anni dopo ecco di nuovo il riflesso punitivo verso l’ex Urss che si sfaldava, lasciando i russi a sé stessi. E così facendo abbiamo lasciato che in quel Paese crescesse un sentimento di revanscismo imperiale. Non è che ragionando in questo modo si giustifica Putin, per carità, però possiamo capire quali sono stati i nostri errori per non ripeterli nel futuro».

E nel nostro piccolo, cosa sta succedendo? C’è aria di crisi economica e sociale.

«Stanno aumentando le disuguaglianze, l’economia si indebolisce e viene distribuita male. La prima cosa da fare sarebbe aiutare chi è più esposto, che non è solo il poveraccio. Un lavoratore stipendiato oggi non ce la fa più. lo tutte le settimane vado al supermercato, e vedo cos’è la paura, l’ansia: sentimenti che alla lunga possono diventare pericolosi perché rischiano di provocare un distacco e quindi un venir meno di sentirsi comunità nazionale».

E questo lo ha detto al premier Draghi?

«Lo dirò in Parlamento quando ne avrò l’occasione. Ma qui posso anticipare qualcosa, per esempio che invece di concentrarci sugli extra-profitti per le aziende dell’energia – un tema complesso, che oltretutto si presta a ricorsi giudiziari – dovremmo pensare a un blocco di tre mesi dei prezzi di gas ed elettricità. Che avrebbe lo stesso effetto nei confronti delle grandi aziende – per quelle piccole si può pensare a provvedimenti ad hoc – e sarebbe un segnale forte di attenzione verso le famiglie. Insomma, a Draghi voglio dire che il messaggio deve essere più netto, più assertivo e più diretto verso i ceti popolari, il disagio è più profondo di quel che si pensa. Altrimenti questo disagio finirà tutto a destra».

L’attuale governo reggerà all’urto della guerra e della crisi economica?

«Finché si combatte in Ucraina, reggerà. Poi bisognerà vedere come ci prepariamo all’appuntamento successivo, ossia alle elezioni».

E la sinistra come si sta preparando? È giusta la strategia di Enrico Letta, quella del cosiddetto campo largo che però sembra restringersi ogni giorno di più?

«Intanto Enrico ha ricompattato il Pd, e questo non è poco. Sul campo largo, che io chiamo campo progressista, non vedo un’alternativa se vogliamo evitare che vinca la destra. Penso che con i Cinque Stelle, che stanno faticosamente cercando una loro nuova identità, si debba trovare un’intesa sul programma di governo. E penso anche che Giuseppe Conte sia stato ingiustamente demonizzato mentre invece non ha governato male: e con la pandemia non era affatto un compito facile».

E Renzi, secondo lei cosa vuol fare da grande?

«Non vedo grandi prospettive politiche per un nuovo piccolo centro, se non nella ricerca di un’utilità marginale. Insomma, una sterile rendita di posizione».

Voi che farete: rientrerete nel Pd?

«Bisogna chiedere al Pd se ci vogliono… Scherzi a parte, noi stiamo nel campo progressista, come e quanto lo vedremo al nostro congresso tra un mese».

Ultima questione, imbarazzante: D’Alema e la vendita di armi alla Colombia.

«Lui ha ripetuto mille volte che ha smesso di fare politica, ora fa un altro mestiere. Certo, io ho interessi diversi, presiedo l’Istituto di storia della Resistenza di Piacenza, dove lavorano solo volontari. Se volete contribuire, non abbiamo un soldo».