Bernabucci: la storia di Lula, homem de bem, non è ancora finita

Esteri e Primo piano
Testo scritto per Huffington Post
di Claudio Bernabucci

Homem de bem è una bella espressione che si usa in Brasile per indicare una brava persona, ma la traduzione italiana non rispecchia adeguatamente la lingua portoghese in tutte le sfumature di tale locuzione. Nuances che arrivano a toccare la sfera spirituale allorché la lingua di Camões fa ricorso al concetto di bene accanto al sostantivo uomo-homem. Ebbene, voglio iniziare questa mia testimonianza sulla figura di Lula – che conosco dal 1981 – esprimendo con schiettezza l’opinione che ho di lui: egli è un uomo-di-bene.

Negli otto anni alla presidenza del Brasile, dal 2003 al 2011, Lula fu celebrato in ogni angolo del mondo per i suoi successi di governo e additato come il leader carismatico che aveva sottratto alla miseria decine di milioni di brasiliani, facendo arricchire allo stesso tempo imprenditori e banchieri come mai prima di allora; fu accostato a figure come Mandela o Mujica per il suo prestigio indiscusso. “This is my man, right here. I love this guy”, disse di lui Obama nel 2009, con straripante simpatia.

Oggi, la nemesi: la sua figura, seguita con scarsa attenzione internazionale negli anni della crisi, è tornata alla ribalta a seguito della condanna in secondo grado e al carcere, con l’accusa di corruzione passiva e riciclaggio. Gli viene imputato di essere il proprietario occulto di un attico in un palazzone sulla costa di São Paulo, promesso – ma mai acquisito – in cambio di favori negli appalti. Le prove, per dichiarazione del pubblico ministero Dallanhol, non ci sono “ma la assoluta convinzione della sua colpevolezza, sì”. A suo dire, come dichiarò nel corso di una conferenza stampa con tanto di power-point – e non in tribunale – Lula sarebbe “il comandante supremo” di una associazione a delinquere, ancora una volta in base a mera “convinzione”.

Più efficace di lui si è rivelato nei fatti Sergio Moro, allo stesso tempo giudice istruttore e giudicante, autorità monocratica che la magistratura brasiliana ha voluto arbitro, apparentemente solitario, del destino di un ex presidente. Grazie a vari indizi che coinvolgevano soprattutto la moglie di Lula e alla confessione di un pentito, a cui è stato garantito un consistente sconto di pena, Moro ha condannato Lula in primo grado. Ancora una volta, nessuna prova.

Negli anni trascorsi in Brasile ho appreso un detto che alcuni conoscenti della classe alta, desiderosi di istruirmi sull’andazzo, ebbero cura di evidenziarmi come fondamentale per orientarsi nel paese: “aos amigos tudo, aos inimigos a lei” (per gli amici tutto, per i nemici la legge). Proprio così è andata per Lula, che ha di certo sottovalutato, negli anni dei suoi successi, i rapporti di forza reali nella democrazia debole del suo paese. Paese che invece rimane ancora drammaticamente diviso, come scriveva Roberto Freire 85 anni fa, tra “Casa-grande e senzala” (Padroni e schiavi, Ed. Einaudi, 1965).

Resta il fatto che con la condanna e la prigione comminata prima del quarto e ultimo grado di giudizio, a Lula sarà definitivamente sbarrata la strada per le presidenziali del prossimo autunno. Elezioni per le quali è stato in testa ad ogni sondaggio realizzato sinora, ragione non ultima delle sue vicissitudini. Negli ambienti brasiliani che contano, anche in quelli sani che con ingenuità confidano nella via giudiziaria alla redenzione del paese, si ripete come un mantra il teorema che soggiace a tutte le critiche nei confronti dell’ex presidente: il Partito dei lavoratori al governo si è comportato come tutti gli altri e Lula non poteva non sapere delle tangenti ai sui uomini e dei finanziamenti in nero alle campagne elettorali. Teorema in ogni caso enunciato in camera caritatis e mai provato, attinente più a responsabilità politica che giudiziaria; ciò che non ha impedito ai più prestigiosi giuristi internazionali di schierarsi dalla parte dei diritti di Lula, così come ha fatto la stampa più accorta e indipendente, BBC e New York Times in testa.

Polemiche infuocate su di lui – una guerra civile di recriminazioni – lacerano il Brasile che scivola pericolosamente verso una restaurazione classista sempre più violenta, coi militari che rialzano la testa a chiedere la condanna dell’uomo più amato dal popolo e allo stesso tempo più detestato dall’altra metà del paese. La stampa del pensiero unico parla d’altro, ma Lula è rimasto l’uomo umile e semplice di allora, con le stesse abitudini popolari, che sprizza felicità in mezzo al suo popolo di poveri e diseredati, pronipoti degli schiavi, ancora timorosi della frusta del padrone. Mai sedotto dalla ricchezza né dagli agi (forse sì, dall’effimero potere di governo), dopo gli otto anni di presidenza è tornato a vivere nella sua modesta casa di São Bernardo, nella periferia di São Paulo, dove l’incontrai trent’anni prima.

Discettare sulle migliaia di pagine degli atti di un processo che ben pochi hanno letto al mondo va lasciato ai giuristi. Noto solo che nel furore delle polemiche sin troppi ripetono pappagallescamente le verità preconfezionate da altri. Una cosa è certa: non è la magistratura di nessun paese che si voglia definire democratico abilitata a giudicare responsabilità politiche: queste spettano alla storia o magari, nel contingente, alla volontà espressa dai cittadini-elettori, cosa che in Brasile non potrà evidentemente avvenire.

Lula è divenuto un personaggio tragico che col carcere può trasformarsi in eroico. E allora la nemesi potrebbe dare ancora una volta la sua giravolta, per la beffa dei suoi aguzzini e dei reazionari di ogni latitudine. Dalla cella di 12 metri quadrati dove è rinchiuso, con due ore d’aria al giorno in isolamento dagli altri detenuti, riecheggiano le sue parole: “Non sono un essere umano, sono una idea” (…) “e i miei sogni voleranno assieme ai vostri sogni”. Destinatario: il suo popolo.

Non c’è dubbio, non è ancora finita la storia di Lula, homem de bem.