Oggionni: sinistra, perché c’è bisogno di radicalità (e non di estremismo)

Politica e Primo piano

Pubblicato su Huffington Post

di Simone Oggionni

David Tozzo ha scritto per la Luiss University Press Il cuore delle cose. Storia delle idee radicaliApprezzo molto questa ricerca del nerbo, dell’essenza, del nocciòlo delle cose. Una ricerca del cuore che è appunto ricerca della radice. C’è una bellissima frase di Marx, contenuta nell’Introduzione di Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Nel 1843 scrive che “essere radicale significa cogliere le cose dalla radice”. In realtà la citazione è più lunga ma la seconda parte la ricordo alla fine.

Per ora ci basti dire che essere radicale significa cioè scendere in profondità, non accontentarsi della superficie. Concepire la filosofia, ma anche la politica, ma anche la militanza e la vita così, come un viaggio continuo verso la natura più intima e profonda delle cose. Intenderla come una ricerca di soluzioni e di verità attraverso la competenza e la passione. È un invito ad abbandonare la banalizzazione e la dimensione dello slogan (“il crampo mentale”, scriveva Wittgenstein), che segnano purtroppo il nostro tempo.

Indirettamente siamo già dunque nel campo della critica a quella dittatura dell’immediato e del presente, e con essi della comunicazione, che sovra-determina e domina tutto (mi verrebbe da scrivere: anche in questi giorni, dove la quantità, la qualità e la densità del fenomeno coronavirus non sono illustrate da scienziati e governate da politici ma sono strillate da giornalisti alla ricerca dello scoop e dell’audience, in una vera e propria pornografia del contagio che è in fondo la cifra dei nostri giorni).

Quali riflessioni traggo da questo libro?

Innanzitutto uno stimolo. Tozzo ci dice che il radicalismo è l’antitesi del moderatismo, del centrismo, del pensiero unico, ad un’unica direzione. Di quel “there is not alternative” con cui Thatcher inaugurò questo sciagurato trentennio successivo ai trent’anni gloriosi del compromesso socialdemocratico e dal quale non siamo ancora usciti. Un trentennio che ha prodotto infiniti danni e corollari di ogni tipo, a partire dalla tesi – sistematicamente smentita dai fatti – per cui la sinistra può vincere solo se guarda al centro.

Niente di più falso. La sinistra perde se perde l’anima, se si traveste nel suo avversario, se assume la postura, il linguaggio, i paradigmi, il punto di vista dell’avversario. Invece vince se si comporta da sinistra, se sceglie la propria parte nel mondo, se torna a interpretare il conflitto lottando con radicalità per un orizzonte di giustizia, di libertà e di eguaglianza.

Oggi questo ragionamento è nelle corde del laburismo inglese di Corbyn, nel socialismo americano di Sanders e di quel nucleo meraviglioso di giovani donne (non a caso: giovani e donne) che hanno fatto titolare qualche mese fa a The Economist, rivista tempio del capitalismo anglosassone, “The rise of Millennial Socialism”.

Io penso ci sia un grande bisogno di radicalità dentro il campo della sinistra e dei progressisti europei e ancora di più in Italia sia per battere il moderatismo del pensiero unico sia per sconfiggere il radicalismo reazionario della destra sovranista, la quale nega in profondità – pur volendosi occidentale e alfiere delle nostre autentiche radici culturali – uno dei capisaldi appunto della nostra civiltà europea e occidentale e cioè la capacità di relativizzare, di confrontarsi con il diverso e con il distante da sé.

Detto questo, sottolineo due punti critici nel ragionamento di Tozzo. Il primo: io penso che si debba distinguere con molta nettezza tra radicalismo ed estremismo. C’è un bellissimo passo di Hannah Arendt ne La banalità del male in cui la Arendt lo fa magistralmente. Scrive: “È mia opinione che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo, e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie.

È una sfida al pensiero […] perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il bene ha profondità, e può essere radicale”. Arendt quindi introduce una distinzione essenziale tra la dimensione della radicalità, che è appunto profondità e che appartiene al bene, e quella dell’estremismo, che è superficialità e appartiene al male. Ha ragione. Per spiegare il perché me la cavo con un’altra citazione, che è il titolo di un celebre saggio del 1920: L’estremismo è la malattia infantile del comunismo.

L’autore è Lenin, non un commentatore da salotto ma il capo della rivoluzione bolscevica, l’uomo che ha cambiato le sorti dell’umanità guidando la più forte e radicale rivoluzione dell’epoca contemporanea. In questo saggio, diretto alla frazione di sinistra dei bolscevichi russi e alla frazione di sinistra del partito comunista di Germania, che aveva appena compiuto una scissione, Lenin critica l’antiparlamentarismo e rivendica la centralità delle istituzioni; critica la logica del rifiuto a priori dei compromessi, che invece sono il sale della politica, anche nella sua dimensione rivoluzionaria; e critica infine il dogmatismo, perché fraintende grossolanamente la funzione della teoria, da intendersi come guida all’azione e non come dogma. Insomma: definitivo.

Il secondo punto critico, su cui a mio avviso occorre riflettere, è il seguente: Tozzo nel libro sottolinea più volte, in più passaggi, la positività e l’indispensabilità dell’individualismo, inteso come espressione di una sincera radicalità esistenziale. Io preferisco il concetto di persona. È il grande tema della differenza tra l’individuo borghese dell’ideologia liberale e la persona sia della dottrina cristiana sia della filosofia hegeliana; tra l’individuo come monade irrelata e la persona come fulcro di relazioni sociali.

Non è un dettaglio, perché qui si gioca una parte importante della credibilità di quel progetto radicale che intendiamo proporre. Ho scritto ripetutamente in questi anni della necessità di un nuovo umanesimo sociale. Lo ribadisco, condividendo in profondità ciò che ha scritto nel 2010 Mario Tronti per la lectio magistralis tenuta alla Camera dei Deputati in occasione del novantacinquesimo compleanno di Pietro Ingrao: la persona è “ciò che l’individuo non potrà mai essere: legge soggettiva dell’esistenza e legge spirituale della libertà. La persona è la realizzazione dell’ideale kantiano dell’autolegislazione dell’essere umano. Se l’individuo è homo oeconomicus, la persona è sostanzialmente homo politicus.

E qui completo la citazione del 1843 di Marx: “Essere radicale significa cogliere le cose dalla radice”, abbiamo dettoAggiunge: “La radice per gli uomini è l’uomo stesso”.

Questa deve essere la chiave del nostro progetto: la difesa integrale dell’uomo. Della sua fragilità, della sua inadeguatezza, della sua paura e della sua insufficienza di fronte alla sicumera e alla catastrofe del tempo presente. Io la sinistra la immagino così, capace di interpretare con compassione l’umano e di dialogare con intelligenza razionale con l’umano. Concludo: la somma di queste considerazioni mi porta a dire che occorre ricostruire un pensiero radicale e metterlo al servizio di un progetto politico capace di sfidare le passioni tristi di questi tempi e le forze che lo interpretano.

Un pensiero radicale e non estremista, che dunque si colloca nel campo del centro-sinistra, dentro il dibattito politico che si svilupperà in questi mesi e che sarà animato in primo luogo dal Partito democratico, che è di gran lunga il soggetto principale di questo campo. Un partito che ha grandissimi limiti e che senza una profonda autocritica rispetto agli errori compiuti in questi anni, persino rispetto alla sua stessa genesi e alla cultura politica a essa sottesa, rischia di non avere un futuro. Ma che oggi ha la responsabilità storica di definire un percorso che parli a tutta la sinistra italiana.

Io credo nella coesistenza decisiva di questi due fattori: la radicalità ha senso se spesa dentro una massa critica consistente, la massa critica ha capacità trasformativa solo se sviluppa e propone idee radicali. Anche di questo penso che occorra discutere, nel campo della teoria e in quello della pratica.