Visco: una riforma fiscale che dà ragione a tutti non può funzionare

Politica e Primo piano

Pubblicato su Il Sole 24 Ore

di Vincenzo Visco

Un sistema fiscale dovrebbe essere un insieme coerente di norme, regolamenti, procedure… volte a ottenere il gettito desiderato con la massima efficienza, riducendo per quanto possibile gli effetti distorsivi sull’economia. Un buon sistema fiscale, inoltre, deve essere adeguato alle condizioni economiche del Paese e tener conto del contesto internazionale. Ciò spiega il motivo per cui dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, mentre l’orientamento della comunità accademica (Cosciani, ma non solo) era a favore di una riforma radicale ispirata ai sistemi degli altri Paesi europei, vi era chi, interpretando le preoccupazioni dell’establishment finanziario e industriale riteneva che l’Italia non fosse ancora pronta per una riforma moderna, data la sua relativa arretratezza economica (Visentini). Quest’ultima linea prevalse e si dovettero attendere 20 anni prima che l’argomento riforma fiscale fosse ripreso.

La riforma del 1973 riprendeva quindi per grandi linee la struttura prevalente nei sistemi fiscali dei Paesi occidentali: economie relativamente chiuse, con uno stretto controllo sui movimenti di capitali, scarsa mobilità delle persone, dazi in diminuzione, ma ancora presenti, necessità di finanziare i sistemi di welfare che venivano creati, e più in generale di “compensare” le popolazioni per le sofferenze subite nel corso della guerra. Erano quindi previste imposte personali sui redditi, onnicomprensive, fortemente progressive, accompagnate da robuste imposte sulle società e spesso da imposte sul patrimonio, mentre per il finanziamento del welfare si faceva affidamento soprattutto sui contributi sociali.

Come è noto, la riforma italiana deviò considerevolmente dal modello teorico, in quanto dall’Irpef vennero esclusi i redditi di capitale, e di fatto i redditi dei terreni e dei fabbricati (catasto), mentre l’imposta sul patrimonio venne sostituita dall’Ilor. Ancora una volta si manifestò uno scontro tra tecnici (Cosciani) e politici (Visentini), e ancora una volta vinse Visentini. È interessante osservare che il conflitto si manifestò interamente all’interno del fronte liberale: Cosciani e Visentini, senza la partecipazione impegnata delle altre forze politiche e culturali.

Negli anni ’80 del secolo scorso il contesto economico cambiò radicalmente a causa della globalizzazione, delle liberalizzazioni, in particolare quella dei movimenti di capitale, e della competizione su scala planetaria. I sistemi fiscali non potevano non tenerne conto. Furono quindi approvate numerose riforme in tutti i Paesi, particolarmente importante fu quella svedese dei primi anni ’90. È in questo contesto che fu varata la riforma Visco del 1996-97, con due obiettivi di fondo: ridare logica e coerenza a un sistema uscito devastato, oltre che da 20 anni di manipolazioni, soprattutto dalla manovra di emergenza del 1992, e attrezzare il Paese alle nuove sfide in tempi di globalizzazione, moneta unica, ecc. A tal fine fu adottato il sistema di dual income tax (Dit) razionalizzando i prelievi sul capitale e tassando per la prima volta nella storia d’Italia tutti i guadagni di capitale. Si aiutò la capitalizzazione delle imprese (sempre con la Dit, di cui l’Ace attuale è una filiazione). Si varò un’ulteriore riduzione dei contributi sociali (svalutazione interna) finanziata con l’aumento dell’aliquota basa dell’Iva dal 19 al 20 per cento. Si realizzò un impressionante recupero di evasione fiscale utilizzato per sopprimere e ridurre numerose imposte, si introdusse il fisco telematico (allora una best practice a livello mondiale), e si riformò il ministero delle Finanze con la creazione delle Agenzie.

Passati oltre 20 anni, anche quella riforma appare disarticolata dagli interventi successivi e soprattutto superata dal nuovo contesto economico. Forse non tutti se ne sono accorti, ma la fase è cambiata, e anche in materia fiscale sarebbe opportuno tenerne conto.

C’è oggi una chiara tendenza degli Stati a riappropriarsi delle basi imponibili nazionali, di contrastare le pratiche elusive del big business, di costringere i paradisi fiscali alla disclosure sui redditi dei propri cittadini, il che può consentire un maggior rigore nella tassazione di questi redditi a livello nazionale. C’è il recupero dell’idea, per molto tempo ignorata o derisa, che anche “i ricchi” devono pagare una giusta quota di imposte. Vi è il recupero delle imposte patrimoniali, non soltanto nei lavori di Piketty, ma anche nelle indicazioni che la Commissione europea fornisce periodicamente all’Italia. C’è preoccupazione (sempre da parte della Commissione) per l’eccesso di carico fiscale e contributivo sui redditi di lavoro e quindi l’indicazione di mutare i meccanismi tradizionali di finanziamento del welfare. C’è l’indicazione ad aumentare l’incidenza delle imposte sui consumi, il che in Italia significa l’esigenza di eliminare una volta per tutte l’evasione di massa, utilizzando tutti gli strumenti digitali e informatici oggi disponibili, eccetera. Infine dopo la pandemia bisognerà continuare a finanziare spese pubbliche aggiuntive in diversi settori, il che significa che pensare di ridurre la pressione fiscale è sostanzialmente velleitario.

Ebbene, è difficile trovare una consapevolezza di questi problemi nel documento approvato dalle Commissioni parlamentari sulla riforma fiscale. Si tratta essenzialmente di un testo con una forte propensione anti-tasse, in cui si sostiene la riduzione della pressione fiscale, e in cui le imposte vengono viste sempre come eccessive e distorsive; pieno di incongruenze logiche e contraddizioni, in cui si propongono riduzioni di aliquote e abolizioni di imposte soprattutto a favore della finanza e delle imprese, in cui si sostiene l’impegno degli strumenti digitali per il contrasto all’evasione, ma al tempo stesso si sostiene che i poteri dell’amministrazione finanziaria vadano ridotti, che il redditometro va abolito, e così il reverse charge e tutti gli strumenti di indagine e accertamento induttivo. Si propone l’adozione della dual income tax, facendo finta di non sapere che essa fu introdotta nel 1996, ma che non ha funzionato bene in pratica, ma proponendo di mantenere con vari artifizi le aliquote di fatto attuali. Si indica correttamente la necessità di intervenire sulle spese fiscali, ma si propone di trasformarle in spese dirette, e non di ridurle. E soprattutto si mantiene quello che già ho definito «un privilegio esorbitante», e cioè la tassazione forfettaria per la grande maggioranza dei lavoratori autonomi, che anzi viene rafforzata, ribadendo una discriminazione della tassazione personale in base alle categorie professionali, con una particolare discriminazione nei confronti dei pensionati a basso reddito, senza considerare peraltro che un sistema di dual income tax è logicamente incompatibile col forfait. Si introducono ulteriori discriminazioni a favore di singole categorie di contribuenti. Si propone anche di fornire incentivi ai contribuenti “onesti”, quasi che il rispetto delle leggi fosse materia di incentivazione.

In sostanza, al dunque, si propone di mantenere le cose più o meno come stanno, e anzi di peggiorarle un po’, confermando che la materia non si presta a convergenze bipartisan, e che quindi, dovendo dare ragione a tutti su singoli punti, il pasticcio è assicurato. In tutto questo ciò che più meraviglia è il voto pressoché unanime a favore del documento, e in particolare quello da parte del Pd che sembra non essere interessato a elementari princìpi di equità e giustizia fiscale, con il suo responsabile economico che cerca di convincere (forse se stesso) che si è raggiunto un buon compromesso. Anche l’astensione di LeU appare poco comprensibile. Ora la parola spetta al governo che dovrà in qualche modo intervenire, mantenendo una qualche dignità scientifica al suo intervento. Molti auguri.