Pubblicato da Il Sole 24 ore
di Vincenzo Visco
La dichiarazione (poi contraddetta) della presidente della Bce sull’incompetenza della Banca rispetto agli andamenti degli spread nella zona euro più che una gaffe esprime in realtà la strategia di fondo che è stata seguita in Europa nella gestione della crisi finanziaria del 2007-08, strategia che ha portato alla ridotta crescita della zona euro rispetto alle altre economie avanzate, a numerose crisi bancarie che potevano essere evitate, e alle inevitabili reazioni politiche degli elettori europei.
L’introduzione della moneta unica aveva determinato, come era logico, atteso e desiderato, l’unificazione del mercato finanziario europeo e la convergenza dei tassi di interesse sul debito dei diversi Paesi partecipanti verso i valori del bund tedesco: una moneta, un tasso di interesse. Del resto questo era stato il motivo principale per cui il Governo Prodi I fece di tutto per condurre l’Italia nell’euro fin dall’inizio eliminando così uno spread che allora era superiore ai 500 punti base. Naturalmente il Governo era consapevole che, una volta messo in sicurezza il debito pubblico italiano, era necessario continuare con una politica di bilancio prudente e consapevole in grado di determinare una progressiva riduzione del debito pubblico. Consapevolezza che purtroppo venne meno con i Governi successivi.
Dopo il fallimento di Lehman Brothers, però, la Germania impose un diverso punto di vista, del tutto in contrasto con la logica della moneta unica, vale a dire la revoca della garanzia implicita di cui fino allora avevano goduto le istituzioni finanziarie europee stabilendo che i costi di eventuali crisi bancarie dovessero essere sostenuti da ciascun Paese singolarmente e non dall’Unione congiuntamente. Questa decisione determinò l’immediato ritiro da parte delle banche dei Paesi core degli investimenti effettuati in titoli di Stato dei Paesi più deboli provocando ovviamente l’immediata divaricazione dei tassi, la crisi dei meccanismi di trasmissione della politica monetaria nella zona euro, la crisi del sistema dei pagamenti e della liquidità del mercato, la restrizione creditizia nei Paesi più esposti, le crisi bancarie eccetera.
Si trattò non solo di un errore clamoroso dettato sia da pregiudizi che da una errata interpretazione degli effetti della crisi che inevitabilmente aveva provocato un aumento dei disavanzi e dei debiti pubblici di tutti i Paesi, ma anche di una interferenza e un condizionamento gravissimo nell’attività della Banca Centrale, che in base ai trattati e nel rispetto dei suoi compiti istituzionali avrebbe dovuto garantire il buon funzionamento del sistema dei pagamenti e del mercato monetario ripristinando condizioni idonee a garantire che l’inaridimento dei flussi finanziari venisse contrastato ed invertito. Questa situazione permane in parte ancora oggi, nonostante il quantitative easing di Mario Draghi, la cui efficacia è stata peraltro fortemente ridotta dall’obbligo di acquistare i titoli pubblici dei diversi Paesi in base alla capital key, mentre sarebbe stato necessario vendere i titoli tedeschi e degli altri Paesi core e acquistare quelli dei Paesi in maggiore difficoltà in modo da ripristinare la convergenza dei tassi di interesse nella zona euro.
Questo è quanto andrebbe fatto nell’emergenza attuale. Ma si tratta di superare un approccio ormai molto radicato, ancorché errato e, a mio avviso, contrario ai trattati, che ha prevalso negli ultimi anni. Infatti ciò che sta per accadere è un aumento dei disavanzi pubblici e dei debiti dei Paesi dell’eurozona di dimensioni probabilmente molto maggiori di quelle provocate dalla crisi del 2007-08, e che se non gestito in modo non convenzionale, potrebbe veramente portare alla dissoluzione dell’eurozona, dal momento che i mercati non si lasciano commuovere dal coronavirus.
E qui si pone un altro problema di rilevante importanza: cosa fare del nuovo debito che sarà accumulato? Cioè come gestire e liquidare nel tempo un extra debito di 20-30 punti di Pil che l’emergenza coronavirus e il blocco delle attività economiche probabilmente provocherà?
In proposito sarebbe utile riflettere sulle esperienze del passato, anche queste ignorate dai governanti europei negli anni scorsi. Queste esperienze sono state sintetizzate in numerosi lavori di Reinhart e Rogoff (e associati), molto citati negli ultimi anni e forse poco compresi nelle loro implicazioni di fondo.
In questi studi si dimostra come i grandi debiti accumulati in passato (per esempio dopo la crisi del ’29 o dopo la seconda guerra mondiale) non siano mai stati rimborsati interamente secondo principi e criteri ortodossi, ma che essi spesso vennero eliminati (ridotti) in seguito a default, o ristrutturazioni, o mediante una forte inflazione (come fece l’Italia – Einaudi – dopo la guerra). Talvolta possono essere riassorbiti grazie a un periodo di forte crescita economica (che oggi non appare molto probabile), ma più spesso sono stati gestiti mediante sistematici interventi di “repressione finanziaria” consistenti nel collocare forzosamente il debito presso le istituzioni finanziarie o i fondi pensione, o imponendo tetti ai tassi di interesse, eccetera. Per effetto di questo genere di misure negli Stati Uniti il tasso di interesse reale sul debito pubblico risultò negativo per ¼ del periodo compreso tra il 1945 e il 1980, e lo stesso accadde in Italia per tutti gli anni ’70 del secolo scorso. Nella attuale situazione europea si potrebbe pensare ad un apposito contenitore in cui collocare l’extra debito con una scadenza molto lunga (30-50 anni), in modo da evitare che esso interferisca e renda molto difficile la ripresa economica dopo la pandemia. In ogni caso, questi problemi andrebbero affrontati e discussi fin da ora.