Visco: la sinistra non deve ripartire dai Fronti, ma da un programma per l’Europa

Politica e Primo piano

Intervento su Huffington Post

di Vincenzo Visco

Approvata la manovra di bilancio, varato il principale decreto attuativo e in attesa di verificare gli effetti concreti delle riforme volute tenacemente dal Governo, l’attenzione del mondo politico si rivolgerà inevitabilmente verso la scadenza delle elezioni europee (maggio).

I due partiti di Governo stanno cercando una loro collocazione autonoma nel panorama europeo. Popolari, socialisti e liberal europei sembrano invece orientati verso posizioni di continuità politica e programmatica. Questo, secondo me, è controproducente: è il modo più efficace di rafforzare i partiti populisti, nazionalisti e antieuropei.

Sarebbe quindi utile, soprattutto a sinistra, non partire dagli schieramenti, come purtroppo sembra che stia avvenendo, ma aprire un dibattito sul futuro dell’Europa e sulle riforme necessarie per un rilancio, e prospettare all’elettorato la nuova strategia.

Questo è l’obiettivo del mio articolo. Qualche mese fa, su questo stesso sito, fu pubblicato un documento programmatico per l’Europa firmato da numerosi sindaci con proposte ampiamente condivisibili, ma forse insufficienti rispetto al compito che ci attende. Questo intervento cerca di integrare e completare quella riflessione.

La situazione attuale dell’Europa appare molto precaria sia sul piano economico che su quello politico e sociale. L’Europa rischia oggi la disintegrazione e/o l’implosione.

La Brexit è un esempio evidente del primo dei rischi indicati; la fine della convergenza economica tra Paesi mediterranei e Paesi core (che invece hanno iniziato a divergere sistematicamente), del secondo.

In tutti i Paesi sono aumentate la diseguaglianza, la precarietà del lavoro e la disoccupazione; i salari sono fermi da molto tempo o comunque crescono meno della produttività; dagli inizi degli anni ’90 del secolo scorso la quota del valore aggiunto che va al lavoro si è ridotta di 10/15 punti percentuali; tutto ciò si traduce sul piano sociale in paura per il futuro, insicurezza, e radicalizzazione politica.

L’incapacità di gestire il fenomeno dell’immigrazione genera frustrazione, intolleranza, chiusure nazionalistiche, pulsioni autoritarie.

L’Europa quindi necessita di un cambio di passo nella consapevolezza che, da un lato un suo eventuale fallimento per il collasso della moneta unica provocherebbe conseguenze economiche gravissime per tutti i Paesi, e dall’altro che restare uniti comporta il superamento delle divisioni, dei pregiudizi, e delle disparità di trattamento degli ultimi anni, e il recupero della capacità di tener conto e di conciliare gli interessi di tutti, come avvenuto per lungo tempo.

Il Paese più forte d’Europa, la Germania, rappresenta oggi il 3% del Pil mondiale, troppo poco per contare o addirittura essere preso in considerazione; l’insieme dei Paesi della zona euro rappresenta invece ‘11%-12% del Pil mondiale (gli Stati Uniti il 15%, la Cina il 20%), il 3° Paese per popolazione (340 milioni di abitanti), il 7° come estensione. La Germania è tuttora un Paese ininfluente a livello globale sul piano militare e diplomatico.

La Germania ha bisogno dell’Europa, ma non può pretendere di imporre le sue visioni, le sue ricette economiche, il suo stile di vita ai suoi partners. Questa sensazione o timore sono stati un elemento importante alla base dei risultati del referendum britannico. Né la diarchia franco-tedesca sembra funzionare nella situazione attuale.

L’Europa oggi è stretta nella tenaglia degli Stati Uniti di Trump e della Russia di Putin: ambedue mirano alla sua disintegrazione, ambedue appoggiano i movimenti nazionalisti che si stanno affermando in tutti i Paesi, puntando sulla debolezza politica e sulla divisione dell’Europa. La Germania dovrebbe essere consapevole che, soprattutto per Trump, il nemico principale è proprio la Germania. Gli altri Paesi devono riconoscere che senza la Germania l’Europa sarebbe irrilevante.

E’ giunta quindi l’ora del rilancio del progetto europeo su basi nuove e da tutti condivisibili. I cambiamenti necessari sono molti, anche radicali.

La prima questione riguarda gli assetti istituzionali. La crisi del 2007-08 e il rifluire della globalizzazione hanno mostrato chiaramente i limiti della governance europea che col trattato di Maastricht aveva accettato gli indirizzi liberal-liberisti prevalenti nella gestione dell’economia mondiale dopo gli anni ’80 del secolo scorso, e introdotto la moneta unica integrata da regole uniformi di gestione delle pubbliche finanze, nella convinzione che il processo di convergenza tra le diverse economie sarebbe continuato in un contesto di crescita generale ed equilibrio finanziario. I risultati sono stati deludenti: la crescita dopo l’introduzione dell’euro è risultata bassa (1,5% in media) e inferiore a quella degli Stati Uniti e a quella precedente dei singoli Paesi. Inoltre in presenza di un forte shock esogeno il sistema e i suoi meccanismi di governance non hanno retto. Gli esiti politici e sociali di questa insufficienza e incapacità sono evidenti.

Tali meccanismi dovranno quindi essere modificati e aggiornati per tener conto della mutata situazione, riconoscendo che le esigenze e gli interessi dei Paesi della zona euro sono specifici e diversi da quelli degli altri membri dell’Unione. E’ necessario costruire un diverso sistema di governo per i due insiemi, soprattutto per quanto riguarda la gestione dell’economia. Oggi l’Eurogruppo è solo un organismo informale che si riunisce ai margini dell’Ecofin. Esso va reso autonomo e deve diventare la sede di gestione degli affari economici dei Paesi membri dell’euro. A tal fine non sembrano sufficienti le cooperazioni rafforzate, ma sono probabilmente necessari trattati specifici. Ferma restando la necessità di tutelare i Paesi più piccoli, le decisioni dovrebbero essere assunte tenendo conto anche della dimensione dei diversi Paesi membri, senza diritto di veto, salvo che in casi specifici ed eccezionali.

Gli indirizzi di politica economica vanno cambiati e adeguati alla realtà attuale: riforme dal lato dell’offerta (che non si limitino al mercato del lavoro) sono probabilmente necessarie in tutti i Paesi, così come importante rimane la stabilità finanziaria; tuttavia non bisogna dimenticare che le regole attuali furono elaborate e introdotte quando l’inflazione appariva come l’ostacolo principale ad uno sviluppo ordinato; ora i rischi prevalenti sono la stagnazione, la disoccupazione, la sottoccupazione, la precarietà e la svalutazione del lavoro. La zona euro deve quindi adottare misure idonee a perseguire la piena e buona occupazione al suo interno, e una crescita delle retribuzioni in linea con gli incrementi della produttività.

A tal fine si richiede una gestione unitaria delle finanze pubbliche dei diversi Paesi: i Paesi in surplus commerciale e con situazioni debitorie non problematiche devono espandere decisamente le loro economie (aumentando la spesa pubblica e riducendo le imposte), mentre più prudenti dovrebbero essere le politiche fiscali degli altri Paesi, ma nel complesso per un periodo non breve le politiche economiche della zona euro dovrebbero diventare e rimanere espansive per rimettere in moto il processo di convergenza delle economie reali. In questo contesto può essere utile prevedere un bilancio comune per la zona euro alla condizione che esso non sia di dimensioni puramente simboliche.

Vanno quindi superati il fiscal compact e gli attuali meccanismi di sorveglianza macroeconomica e reintrodotta la golden rule per gli investimenti ad alto moltiplicatore sia a livello nazionale che europeo.

Va iniziato un dibattito sui poteri e sul ruolo attuali della Banca Centrale che non dovrebbero limitarsi al solo controllo della inflazione. Al contrario, nel contesto della stabilità dei prezzi, la BCE dovrebbe sostenere le politiche espansive della zona.

L’Unione bancaria va completata; occorre fermare e invertire il processo di balcanizzazione finanziaria che si è realizzato in Europa dopo la crisi, introdurre l’assicurazione dei depositi, estendere la vigilanza bancaria a coprire nella stessa misura i vari sistemi bancari nazionali (cosa che oggi non avviene), valutare non solo i rischi di credito delle banche, ma anche quelli di mercato (derivati).

In un sistema economico caratterizzato da una moneta unica anche il tasso di interesse prevalente dovrebbe essere (tendenzialmente, e sempre che le finanze pubbliche dei diversi Paesi non divergano eccessivamente) uno solo. Questo è quanto era avvenuto subito dopo l’introduzione dell’euro. La situazione è cambiata quando in seguito alla grande crisi, il riflesso nazionalistico che si è prodotto, e la sfiducia e il riemergere di pregiudizi antichi, hanno determinato politiche volte a segregare i rischi a livello nazionale che alla fine hanno danneggiato l’intera Unione.

Da questo punto di vista l’Italia ha la responsabilità di avere interrotto le politiche di riduzione del debito pubblico attuate con successo dai governi del 1996-2001 e 2006-08, senza peraltro neanche riuscire ad ottenere una crescita adeguata. Tutto ciò ha creato sfiducia all’interno e soprattutto all’estero.

L’insistenza della Germania su politiche di rigore deriva dalla convinzione che bisogna evitare ogni possibile “azzardo morale”, e cioè la tentazione di scaricare su altri gli effetti delle proprie manchevolezze. Ciò è comprensibile. Tuttavia non va dimenticato che, come insegna la teoria delle assicurazioni, la condivisione dei rischi è il modo più efficace (in realtà l’unico) per minimizzare i rischi stessi, come dimostrato peraltro dal whatever it takes di Draghi: dopo quella sua affermazione i rischi si sono ridotti drasticamente e la speculazione contro la moneta unica è cessata senza spendere un solo euro. Non si tratta di richiedere che altri si facciano carico dei debiti dei Paesi in maggiore difficoltà, bensì di creare situazioni di contesto che favoriscano, e non ostacolino, il risanamento a livello nazionale.

All’interno di questo nuovo approccio va ripresa una riflessione sulla gestione dei debiti pubblici eccessivi di alcuni Paesi, sulle linee del rapporto dei “saggi” tedeschi di alcuni anni fa e di altre proposte successivamente avanzate. Un ordinato smaltimento dei debiti eccessivi è nell’interesse di tutti i Paesi dell’Unione.

Oltre alle economie reali, anche i sistemi fiscali dei diversi Paesi dovrebbero convergere. Il processo di armonizzazione fiscale, accantonato a favore della concorrenza fiscale, deve riprendere, soprattutto per la zona euro e per quanto riguarda la tassazione delle imprese e dei capitali. Vanno contrastati duramente i paradisi fiscali esterni, ma anche interni all’Unione, e va risolto a livello europeo il problema della tassazione delle imprese del web realizzando proposte già avanzate e bloccate dalla esitazione di alcuni Paesi (tra cui la Germania). Vanno introdotte imposte ecologiche e modificate in questa direzione le imposte sulla energia esistenti.

Le politiche del lavoro vanno progressivamente coordinate e armonizzate. Va introdotto un sistema comune di assicurazione contro la disoccupazione. L’Europa dovrebbe chiedere nelle sedi opportune che i Paesi che fanno parte del WTO adottino le prescrizioni e gli standard dell’ILO (International Labour Organization) in modo da ridurre la concorrenza sleale tra imprese e Paesi. Questa è la corretta soluzione del problema evidenziato da Trump con i suoi dazi.

L’Unione Europea e la zona euro non attuano una politica industriale comune e questo le pone in difficoltà rispetto a grandi Paesi come USA e Cina. In Europa non esistono imprese di dimensioni adeguate attive nel settore del web e negli altri settori emergenti dell’economia contemporanea. Non esistono progetti comuni per lo sviluppo dei veicoli senza conducente, per le auto elettriche, per la robotica, per l’intelligenza artificiale, i big data, non esiste una società di revisione europea, ecc. Sono necessari progetti comuni e grandi investimenti in ricerca e sviluppo per il loro decollo. Solo imprese con un radicamento che fa riferimento a mercati interni con milioni di consumatori ed utenti possono risultare competitive a livello globale in alcuni settori.

I nuovi monopoli (americani) come Google, Facebook, Amazon ecc. vanno combattuti senza esitazione, e va loro imposto il rispetto delle normative fiscali e sul lavoro europee.

Occorre un grande progetto di conversione ecologica dell’economia, delle energie rinnovabile e delle infrastrutture comuni, anche per ridurre la dipendenza europea (oggi eccessiva) dal gas russo. La Bei potrebbe fornire le risorse necessarie.

Di fronte al progressivo disimpegno americano e agli atteggiamenti minacciosi della attuale amministrazione americana, l’Europa ha bisogno di una politica di difesa e sicurezza comuni. Ciò è necessario anche per gestire il fenomeno della immigrazione che va risolto, inizialmente almeno a livello della zona euro, prevedendo sia il controllo delle frontiere comuni, sia politiche di assistenza ed aiuto per i Paesi coinvolti, sia procedure comuni per la immigrazione legale. Non deve essere consentito ai Paesi di Visegrad di condizionare gli altri Paesi su questioni strategiche e di grande impatto politico. Bisogna sempre ricordare che questi Paesi hanno bisogno dell’Europa molto più di quanto l’Europa abbia bisogna di loro, e che la loro preoccupazione (storica) riguarda soprattutto la Russia. Essi quindi non sono in grado di “tirare la corda” oltre un certo limite.

Queste sono le cose da fare oggi per un rilancio duraturo del progetto europeo. Come ha detto il Presidente Macron, la Brexit è la dimostrazione che l’Europa va ripensata e rifondata. Ma la Brexit rappresenta anche una formidabile opportunità per riprendere il cammino della integrazione, bloccato per 40 anni dal comportamento e dai condizionamenti della Gran Bretagna interessata esclusivamente ad una zona di libero scambio basata sulla concorrenza fiscale e sul dumping sociale garantito negli ultimi anni anche da un allargamento a est forse prematuro.