di Vincenzo Visco
Entro la fine del mese di luglio il governo si è impegnato a presentare in Parlamento una legge delega sulla riforma fiscale. Si è deciso così di seguire una procedura diversa da quella inizialmente annunciata, e di acquisire (giustamente) la documentazione presentata dagli esperti nelle audizioni tenute presso le commissioni finanze congiunte di Camera e Senato. Al tempo stesso i partiti hanno presentato propri documenti e proposte la cui lettura, salvo un paio di eccezioni, è un’esperienza fortemente deludente per la scarsa consapevolezza dei problemi che esse mostrano.
Può quindi essere utile ricordare alcuni princìpi in base ai quali si dovrebbero valutare le proposte di tax design secondo gli economisti. Innanzitutto si riconosce che la capacità contributiva, e quindi quella di sostenere il peso della imposizione, cresce al crescere delle risorse disponibili (reddito, patrimonio), quindi un buon sistema fiscale dovrebbe essere progressivo (equità verticale). Oggi il sistema di prelievo complessivo nel nostro Paese risulta progressivo ai livelli di reddito più bassi, sostanzialmente proporzionale per la gran parte dei contribuenti, e regressivo per i più ricchi. Ciò consiglierebbe di non ignorare e anzi rafforzare i prelievi su base patrimoniale, e sui relativi redditi.
Vi è poi il principio di equità orizzontale secondo il quale, a parità di condizioni economiche e personali, il prelievo dovrebbe essere lo stesso. Per quanto ovvio, questo principio è quello più ignorato e derogato nel sistema italiano.
La soluzione di questo problema dovrebbe comportare, per quanto riguarda l’Irpef, la drastica riduzione delle spese fiscali, il riassorbimento del bonus 100 euro e del sistema forfettario, e la fine delle detrazioni decrescenti. La tutela delle micro imprese potrebbe essere ottenuta con strumenti diversi. Anche gli incentivi fiscali dovrebbero essere sottoposti a revisione dal momento che essi in quanto deroghe alla normativa di base, si giustificano solo se temporanei.
Vi sono poi le imposte e i sussidi giustificati in quanto collegati a esternalità negative o positive. Questa è la giustificazione delle accise sugli oli minerali, gli alcolici, i tabacchi, ma anche della detrazione per le spese sanitarie non coperte dal Servizio sanitario nazionale. Non giustificati invece sono i sussidi fiscali dannosi per l’ambiente che andrebbero gradualmente rimossi.
Dal punto di vista dell’efficienza economica, la teoria suggerisce che imposte a larga base imponibile, in grado di assicurare un gettito rilevante mediante aliquote il più possibile ridotte, sono di gran lunga preferibili, perché meno distorsive, rispetto all’alternativa: basi erose e aliquote più elevate. In altri termini si consigliano basi imponibili onnicomprensive per le principali imposte per evitare l’effetto distorsivo (esponenziale) delle aliquote. Questo fu uno dei motivi che portarono all’introduzione dell’Irap in sostituzione di una serie di prelievi minori tutti con aliquote molto più elevate.
Il prelievo, inoltre, dovrebbe essere per quanto possibile “neutrale”, rispetto alla scelta tra lavoro e capitale, alle scelte finanziarie delle imprese, ecc. Ciò ci porta al problema principale del nostro sistema attuale: l’eccesso di prelievo sul lavoro rispetto agli altri redditi. Negli ultimi 30 anni infatti i redditi di lavoro si sono ridotti considerevolmente in tutti i Paesi, passando dal 60-65% del reddito nazionale a percentuali inferiori al 50 per cento. Ciò significa che non è più possibile continuare a finanziare i sistemi di welfare mediante i tradizionali prelievi sui redditi di lavoro (imposte sul reddito e contributi sociali).
Occorre rivedere completamente il sistema, detassando in modo rilevante il fattore lavoro, e non basta certo a tal fine ridurre l’Irpef di 10 miliardi. È interessante ricordare come questo problema sia stato sottolineato ed enfatizzato nelle recenti comunicazioni inviate dalla Commissione al Parlamento europeo, mentre nei documenti presentati dai partiti italiani solo Articolo Uno ha sottolineato tale punto.
Neutralità finanziaria vuol dire anche ridurre se non eliminare (come fa ancora oggi l’Irap) il favore fiscale all’indebitamento offerto dalla deducibilità degli interessi passivi in sede di imposizione delle imprese, soprattutto se si desidera avere imprese di maggiori dimensioni e meglio capitalizzate. Neutralità significa anche eliminare le norme esistenti che favoriscono la riduzione della base imponibile dell’imposta sulle società, e che i singoli prodotti finanziari, quali che sia la loro natura, dovrebbero essere soggetti al medesimo prelievo. Le imposte non devono essere utilizzate per distorcere l’allocazione delle risorse a favore di questo o quell’emittente o destinatario come oggi avviene sistematicamente, nonostante che la riforma del 1996-97 avesse tentato di introdurre in Italia il sistema di dual income tax. Chi volesse provare a reintrodurlo dovrebbe fare i conti con questa esigenza e uniformare la tassazione per tutti i prodotti, a partire dai titoli di stato.
Questi princìpi generali vanno ovviamente applicati con ragionevolezza e flessibilità, ma non possono essere ignorati. Per esempio non vanno trascurati i rischi di concorrenza fiscale tra Paesi. Tuttavia, per quanto riguarda i redditi da capitale percepiti dalle persone fisiche, sia l’inclusione nella base imponibile dell’Irpef, sia l’affiancamento a un’Irpef sui soli redditi di lavoro di una imposta personale progressiva a base patrimoniale, sia un sistema di dual income tax correttamente costruito sarebbero in grado di far fronte ai rischi di concorrenza internazionale data la operatività degli scambi automatici di informazione in vigore tra un ampio numero di Paesi.
La presenza di concorrenza fiscale peraltro dovrebbe consigliare di aumentare la tassazione sugli immobili e quindi di rivalutare i valori catastali a quelli di mercato. Questione ignorata dai tutti i documenti presentati dai gruppi politici, salvo quello di Articolo Uno, anche se essa è presente in tutte le raccomandazioni che in materia fiscale ci fa la Commissione Europea.
Last but not least, la questione dell’evasione fiscale di massa in Italia. Questo è soprattutto un problema politico. Da un punto di vista tecnico meccanismi di tracciabilità generale delle transazioni, uso consapevole dei big data e dell’intelligenza artificiale sarebbero oggi in grado di risolvere il problema, come ho indicato più volte in altre sedi. Basta deciderlo e convincere il Garante della privacy che il suo ostruzionismo rispetto all’uso generalizzato delle banche dati da parte dell’Agenzia delle entrate è in contrasto con l’interesse generale e un aiuto all’evasione e agli evasori.
Per quanto riguarda la pressione fiscale complessiva, tutti i partiti chiedono la sua riduzione. Richiesta priva di senso: la pressione fiscale corretta è quella che consente di finanziare la spesa pubblica e garantire un ragionevole equilibrio di bilancio. Ciò che è possibile, e auspicabile, invece, è una redistribuzione del prelievo.
Questi sono i principi generali che dovrebbero essere alla base di una riforma fiscale oggi in Italia. Non sembra che le forze politiche ne siano consapevoli. Tocca quindi al governo avanzare proposte che abbiano almeno una plausibilità scientifica in grado di correggere le tante irrazionalità che si sono accumulate nel tempo. Viste le posizioni delle parti politiche è molto improbabile che la riforma sarà particolarmente estesa, ma che sia fatta decentemente non mi sembra una richiesta eccessiva.