di Emanuele Felice e Vincenzo Visco
Non c’è dubbio che il sistema fiscale italiano necessiterebbe di una riforma incisiva. Ma nel dibattito in corso non sembra vi sia la consapevolezza dei problemi reali da affrontare. Anche perché la ricerca della popolarità a tutti i costi impedisce di affrontare le questioni politicamente più delicate (eppure più utili al Paese). Si rischia così di perdere un’occasione storica per riformare il nostro sistema fiscale, per renderlo a un tempo più moderno e più giusto.
Si potrebbe per esempio partire dalle raccomandazioni che da tempo ci fa la Commissione europea. L’Italia, secondo Bruxelles, dovrebbe rapidamente recuperare un adeguato equilibrio di bilancio, porre le condizioni per una progressiva riduzione del debito, contrastare decisamente l’evasione, ridurre la tassazione (imposte e contributi) sul lavoro, aumentare l’imposizione patrimoniale, tassare anche la casa di abitazione, aumentare il gettito dell’Iva (cosa che si può fare riducendo l’evasione dell’imposta). Si tratta di indicazioni che non esauriscono le necessità di una riforma, ma che tuttavia dovrebbero essere al centro dell’attenzione. Ad esse si aggiunge la necessità di una profonda riforma dell’Irpef: il che significa una radicale riduzione delle spese fiscali, l’eliminazione (riassorbimento) degli 80-100 euro e del regime forfettario, l’eliminazione delle detrazioni decrescenti e il ridisegno delle aliquote in base a una funzione matematica continua, soluzione adottata non solo in Germania, ma anche per l’imposta complementare di Ezio Vanoni. Andrebbe poi riordinata la tassazione dei redditi di capitale e introdotto, al posto del forfait, un nuovo meccanismo per ridurre il carico fiscale per le imprese più piccole. Purtroppo questi problemi sono molto trascurati nella discussione pubblica.
Pressione fiscale e debito
La richiesta di quasi tutte le forze politiche è quella di ridurre la pressione fiscale, oggi per la verità solo di poco superiore alla media europea o alla Germania (e di molto inferiore a quella della Francia). Ma soprattutto, è un obiettivo del tutto improbabile nella situazione attuale, dato l’altissimo livello raggiunto dal nostro debito (160% del Pil secondo le stime, nel 2021). La situazione attuale consiglierebbe piuttosto di redistribuire il carico esistente e di recuperare le imposte da chi non le paga. Quanto alla lotta all’evasione, le reazioni all’annuncio del ritorno del redditometro da parte dell’Agenzia delle Entrate e del ministro Franco mostrano come questa preoccupazione non sia tra le priorità di buona parte della attuale maggioranza. Ora, il redditometro è uno strumento di accertamento utile ma marginale nel contrasto all’evasione, anche perché richiederebbe la possibilità di disporre liberamente dei dati dell’anagrafe sui conti finanziari, il che al momento non è possibile. Quello che sarebbe necessario è il tracciamento pieno delle attività economiche, la generalizzazione delle ritenute d’acconto per tutti i redditi, il miglioramento del funzionamento della fatturazione elettronica, l’uso di una aliquota unica nelle transazioni intermedie a fini Iva (che da sola potrebbe ridurre l’evasione di 10 miliardi), convincere il Garante della Privacy ad acconsentire all’uso delle banche dati da parte dell’Agenzia delle Entrate, e altro ancora, come più volte suggerito e indicato da uno degli autori. Se ci fosse la volontà politica di attuare queste misure, realisticamente si potrebbe abbattere l’evasione, recuperando decine di miliardi ogni anno: da utilizzare per la sanità, la scuola, l’università, il welfare, e magari anche per abbassare le tasse a chi oggi le paga in modo onesto ma spropositato, cioè il ceto medio e i lavoratori dipendenti.
Sono soprattutto le forze di centro-sinistra che dovrebbero intestarsi una battaglia di questo tipo. Il fatto che ancora oggi non ne siano capaci o appiano molto timide, con solo qualche eccezione, dimostra quanto negli anni passati questa parte politica abbia ceduto alla cultura della destra, secondo cui ognuno fa per sé e le tasse e la redistribuzione sono il nemico: perdendo innanzitutto sul terreno culturale, prima ancora che su quello sociale e politico. Il discorso però vale anche per i liberali, la cui latitanza su questo tema pure ne certifica il fallimento: i paesi più avanzati sono quelli in cui le tasse si pagano, non quelli in cui le tasse si evadono; e un sistema fiscale equo, trasparente ed efficiente è da sempre alla base del patto di cittadinanza nelle liberal-democrazie. D’altra parte, la cultura anti-tasse è in ottima forma in Italia ed è incarnata magnificamente dalle formazioni di destra e centro-destra: si guardino alle propose di «riforma» fiscale di Lega e Forza Italia, che contengono riduzioni delle imposte spropositate, impraticabili, salvo rischiare di portare al collasso finanziario l’Italia o distruggere il nostro stato sociale, peraltro in un momento del genere (dov’è la responsabilità di queste formazioni che pure si dicono «moderate»?).
Interrompere il declino
Le tasse servono per finanziare i servizi e il welfare di cui tutti usufruiamo, dalla scuola alla nostra sanità universale, alle pensioni, fino alla pubblica amministrazione, alla giustizia, alla difesa e alla sicurezza. Servono per le politiche industriali, ad esempio quelle per la transizione ecologica o per l’innovazione. Servono per proteggere i lavoratori, dipendenti e autonomi, ad esempio da una crisi come quella che stiamo vivendo. L’alternativa alle tasse c’è, naturalmente: fare debito pubblico, cioè fare pagare (demagogicamente) le nostre spese alle generazioni che verranno. Oppure rinunciare a quanto di meglio abbiamo realizzato nel Novecento (e forse in tutta la storia dell’uomo): cioè lo stato democratico moderno, i diritti sociali accanto alle libertà civili, la possibilità di contrastare le disuguaglianze. Il giorno in cui le forze politiche italiane, a cominciare da quelle progressiste, riconosceranno questi semplici dati di fatto, e agiranno di conseguenza, l’Italia avrà compiuto il passo più importante per uscire dalle secche del declino. E il momento per farlo è adesso.