di David Tozzo
Il 25 aprile 1945, giorno dopo il primo anniversario della Liberazione, Umberto Terracini giunge a Roma ed entra nella stanza di Togliatti, in quel momento seduto alla scrivania. Palmiro, alzando lo sguardo, dice a Umberto «Ciao! Siediti, sono subito da te» rimettendo lo sguardo sulle carte che stava osservando.
Parrebbero passate poche ore dal loro precedente incontro, sono invece passati vent’anni, le incarcerazioni, i confini, i campi di lavoro, il nazismo, il fascismo, la Seconda Guerra Mondiale.
Da allora è cambiato il mondo in più d’un modo e momento, sono cambiate le ragioni sociali e i blocchi, sociali, di elezione e riferimento, di elaborazione e rivendicazione, e oltreché la pelle e il nome è cambiato anche un po’ il colore, il cuore e il campo ove insiste l’eredità di quel rettile un po’ giraffa, ircocervo un po’ umano o forse troppo, pertanto paradossalmente quanto inevitabilmente normalizzato, neutralizzato, anestetizzato come una bestia pericolosa quanto paradossalmente umanissima, e pertanto sì, potenzialmente letale per il disumano Capitale.
Questa strana bestia comunista ha comunque resistito a ogni eversivo tentativo di estinzione, nella sua evoluzione è mutata, muovendo dalla clandestinità alla svolta di Salerno, con un Togliatti ambiguo quanto abile nel suo sovietico sussiego, a un Berlinguer col suo posizionamento eurocomunista più avanzato del Continente, a consacrare laicamente il Partito Comunista Italiano come avanguardia e anomalia più grande e forte al di qua dello spazio della cortina di ferro, al di qua del tempo del crollo del muro.
Con esso a venir giù definitivamente è stata la possibilità della contemporaneità comunista, che se per un tempo lungo – un tempo tutto: dall’1 giugno del 1947, De Gasperi IV, alla propria dissoluzione il 3 febbraio del 1991 – s’era (ed era stata) confinata al non potere, adesso veniva condannata al non presente.
Successivamente, nel succedersi rapido e un po’ ramengo delle sigle e delle storie brevi e brevilinee, si passa dalla febbre della rivoluzione al virus del governismo, dell’orizzonte rivoluzionario all’ossessione istituzionale, dall’opposizione ad ogni costo al governo a tutti i costi, dal potere come aggettivo al potere come sostantivo.
Con coerente incoerenza, non potendo più rappresentare un blocco sociale ben preciso (e nutrito) come proletariato e sottoproletariato, essendosi spappolato tutto, sparpagliati tutti, l’erede più recente e rilevante in termini numerici del PCI, il Partito Democratico, prende a rappresentare da un lato le élite, da un altro sé stesso nelle espressioni più apical-cetuali. Null’altro. Autoconservazione del sé come strategia, conservazione dello status quo come tattica, liberal-riformismo più goffamente benevolente dell’originale (la destra liberale) come programma. Nulla.
No, non era il programma, tantomeno l’orizzonte, del PCI.
Il filo rosso che rotolandosi cent’anni arriva a noi dev’essersi in qualche modo perso, strada per strada, non potendolo ravvisare né in grandi e grossi ma in effetti rachitici riformismi raffermi né in incantesimi inconsistenti di formazioni extra-parlamentari lanciatissime verso l’inesistenza, anzi, già lì, già da sempre.
No, il sentiero non è né quello del riformismo né quello dell’estremismo, la strada è quella di un radicalismo di conio nuovo perché nuovo è il campo, il tempo, e non meno radicali sono le sfide del ‘qui’ e ‘ora’, a cui nel XXI secolo non possiamo che alzar sguardo e aggiungere: “ovunque”.
Irreprensibili comunisti, intellettuali liberi, magnifici mostri sacri come i compiantissimi compagni Gramsci, Terracini, Macaluso non avrebbero voluto vedere raccolto alcun testimone o eredità d’altra parte ormai dilapidata, sprecata, sbagliata, perché il tempo è altro e loro guardavano ancor più lontano di cent’anni, no: avrebbero desiderato, desideravano ardentemente, che il presente fosse radicalmente stravolto, e che per dirla con un altro eretico compagno, Sankara, si osasse inventare il futuro.
Che d’altra parte ha radici antiche. In cammino, saremo subito da te.