Speranza: il vaccino ci salverà, oggi il primo passo. Ma la battaglia è lunga

Politica e Primo piano

Colloquio con Repubblica

di Annalisa Cuzzocrea

Roberto Speranza è “in borghese”. Indossa un maglione marrone su un paio di pantaloni sportivi, ma sta trascorrendo al ministero anche la festa di Santo Stefano. Ha appena concluso una riunione con Domenico Arcuri sulla distribuzione dei vaccini. Sa che oggi è un giorno importante, fondamentale: il primo passo di un cammino che dovrà portarci fuori dalla pandemia. «È come se dopo una lunga notte, potessimo finalmente rivedere l’alba. Il mattino però – dobbiamo esserne consapevoli – è ancora lontano». Quello che teme, il ministro della Salute, è che l’arrivo del vaccino spinga tutti a mollare. Ad abbandonare mascherine, cautele, distanziamento. A non seguire più le indicazioni del governo, che invita alla prudenza durante le feste, certo, ma anche dopo: «Perché dal 7 gennaio si tornerà al sistema delle aree colorate, che ha dimostrato di funzionare abbassando l’Rt da 1,7 a 0,82, senza bloccare tutto il Paese».

Alla domanda sulle misure prese durante le feste, davanti al timore che possano non bastare ad evitare una recrudescenza del Covid-19, Speranza si gira verso la finestra e scosta la tenda: sono le 13 di sabato e il Lungotevere è deserto. Sul ponte che lo attraversa, di fronte agli uffici del ministero, non c’è anima viva. «Ho fiducia negli italiani – dice – a ogni passaggio hanno sempre dimostrato di capire. Per questo penso che di fronte a chi ha dubbi o paure sul vaccino, le istituzioni debbano rispondere con trasparenza, portando le evidenze scientifiche. Senza insulti, senza scontri ideologici, senza trattare chi mostra perplessità come un troglodita».

Il ministro ha passato il Natale a Roma con la moglie e i due figli. Il padre, che ha 79 anni, è rimasto da solo a Potenza. «Me lo ha detto lui: dici a tutti di non spostarsi, come potrei farlo io? Quest’anno è così, quest’anno bisogna resistere». Non è facile per nessuno e il titolare della Salute lo sa. Per questo è combattuto sul messaggio da dare nel giorno in cui cominciano le vaccinazioni nel nostro Paese e nel resto d’Europa: «L’arrivo del vaccino è quello che gli inglesi chiamano game changer, un punto di svolta che cambia gli equilibri. È un momento da accogliere con gioia, ma dobbiamo essere consapevoli che non ne vedremo l’impatto epidemiologico ancora per un tempo significativo. Perché ci sia un effetto sul Rt, abbiamo bisogno che si vaccinino tra i 10 e i 15 milioni di persone, numeri che avremo in primavera inoltrata. Abbiamo davanti mesi in cui l’unica arma a disposizione continueranno a essere le misure non farmacologiche, che non potremo dismettere».

Dalla Pfizer sono arrivate 9750 dosi, distribuite a tutte le Regioni. «La prima in assoluto sarà somministrata allo Spallanzani di Roma, dove arrivarono i primi due pazienti cinesi col Covid. Lì è iniziata questa storia, lì comincia la fase che ci porterà a uscirne». Un avvio simbolico, per il resto ci vorrà tempo: «Tu vaccini una persona, dopo 3 settimane devi fare la seconda iniezione e dopo 7 o 10 giorni gli anticorpi saranno efficaci. Per immunizzare 10 milioni di persone serviranno 20 milioni di iniezioni». Per ora, l’unico vaccino che ha la certificazione dell’Ema è quello della Pfizer, ma il sì a quello di Moderna potrebbe arrivare già il 6 gennaio: «Se così sarà, ci consegneranno 1,3 milioni di dosi entro il primo trimestre 2021». Sarà più semplice, perché non ci sarà bisogno come adesso della catena del gelo e di inviare le fiale ai centri scelti dalle Regioni per la conservazione. Arriveranno poi Astrazeneca, Johnson and Johnson, Curevac, Sanofi: «In tutto l’Italia ha opzionato 202 milioni di dosi, seguendo una logica prudenziale». Ma non si può accelerare? Preparare una campagna più massiva? «I tempi risponde il ministro sono subordinati alle autorizzazioni e alla disponibilità delle aziende. Da domani avremo da Pfizer 470mila dosi a settimana, dovremo correre seguendo l’ordine di priorità scelto: il personale sanitario, gli anziani nelle Rsa, le persone oltre gli 80 anni, poi quelle tra i 65 e gli 80».

Entro gennaio, 15mila persone dovrebbero essere assunte con il solo compito di rafforzare la campagna. Quanto all’ipotesi dell’obbligatorietà, Speranza è scettico: «Tutta Europa ha scelto un’altra strada. I numeri che arrivano dalle Regioni sulle preadesioni del personale sanitario sono molto confortanti, in alcune aree superano il 95 per cento». Rivendica le scelte fatte, il ministro: «La gratuità del vaccino, comprato dallo Stato e pagato dallo Stato, non dalle Regioni come per l’antinfluenzale; la gestione centralizzata; l’obiettivo finale: raggiungere l’immunità di gregge». Se sarà sufficiente, si vedrà col passare delle settimane.

La variante inglese fa paura per la velocità di trasmissione, più 0,4 di Rt, per il fatto che ha il suo picco tra i 10 e i 15 anni, perché è già in Francia, Spagna, Germania, Italia, «ma tutti i nostri scienziati ci dicono che i vaccini dovrebbero essere efficaci per questa mutazione, che però ci dimostra come la partita sia ancora da vincere». La campagna di vaccinazione andrà però avanti in ogni caso, «non subirà rallentamenti» promette Speranza, neanche davanti a una terza ondata. Quanto alla scuola, «abbiamo tenuto aperto il primo ciclo anche in zona rossa, l’abbiamo tutelata il più possibile. C’è un accordo con le Regioni per riaprire in presenza le superiori al 50%, potenziando il contact tracing sul quale adesso la scuola avrà la priorità». Tutto dipende dall’andamento della curva: «L’obiettivo è raggiungere i 50 casi ogni 100mila abitanti. Adesso ne abbiamo 150. Eravamo a 450 poche settimane fa, ma negli ultimi 15 giorni l’Rt ha cominciato a risalire, da 0,82 a 0,86-0,90. Per questo bisogna tenere alta la guardia: proprio ora che il vaccino ci sta per portare fuori dall’incubo, non possiamo permetterci nessun errore».