di Umberto De Giovannangeli
È stato tra i protagonisti della battaglia parlamentare contro il decreto lavoro. La parola ad Arturo Scotto, deputato, capogruppo Pd in commissione Lavoro e membro della Direzione nazionale dem.
Qual è la valenza politica del patto sul salario minimo stretto dalle opposizioni al governo Meloni?
Per la prima volta dopo nove mesi la destra è silente, senza reazione, ferma al palo. Avevano investito tutto sull’impotenza delle opposizioni a delineare un’alternativa credibile. Ora sul salario minimo non sanno che dire: incassano la prima sconfitta strategica. Per la prima volta tutti i gruppi di minoranza trovano un’intesa su un fatto concreto, che riguarda la condizione materiale di vita delle persone: sotto i 9 euro nessuno può lavorare sennò è sfruttamento. La pazienza con cui Elly Schlein ha tessuto la tela dei rapporti con le forze politiche del cosiddetto “campo largo” è stata scambiata da molti per debolezza. Invece era un segnale di serietà e rigore politico. La forza del nuovo Pd sta nella capacità di affermare la centralità della giustizia sociale senza rinunciare a parlare con tutti.
E ora?
Devono spiegare perché sono contrari. Lo devono dire a oltre tre milioni di lavoratori senza coperture contrattuali innanzitutto. Come intendono combattere il lavoro povero? E il carovita che si mangia i salari come lo contrastano? Fanno le interviste a nove colonne contro la Bce, abbaiano contro Christine Lagarde che aumenta i tassi di interesse, poi però a Bruxelles fanno scena muta e nel frattempo non mettono in campo nessun piano credibile contro la rincorsa tra prezzi e profitti. Io sono d’accordo con Carlo Messina, numero uno di Intesa-SanPaolo: nel primo trimestre del 2023 le banche hanno visto crescere nettamente le loro plusvalenze, mentre crescevano i tassi sui mutui. Lo deve dire lui che è il caso di tassare gli extraprofitti? O lo può dire anche la Presidente del Consiglio che ha scelto di fare il solletico ai soliti noti e accanirsi contro chi percepiva meno di seicento euro al mese?
Qual è il segno del decreto lavoro del quale la presidente del Consiglio si fa vanto?
Il decreto lavoro è un concentrato di cinismo sociale, una spintarella all’evasione contributiva, un colpo secco al sindacato. Sul reddito di cittadinanza cancellano – sono dati dell’ufficio per il bilancio del Senato – per 400.000 nuclei familiari qualsiasi tipo di sussidio. Persone ridotte da un giorno all’altro sul lastrico. Sul mercato del lavoro aprono alla liberalizzazione totale dei contratti a termine, eliminando le causali, e andando in controtendenza rispetto al resto dell’Europa. Penso alla Spagna dove si è stabilito con sindacati e imprese il principio secondo cui il contratto a termine va pagato di più del contratto a tempo indeterminato. Sui voucher infine si reintroduce l’Ottocento nel mercato del lavoro della sesta potenza industriale del mondo: aziende di 25 dipendenti potranno usare i voucher fino a 15000 euro acquistandoli comodamente in tabaccheria. Per poi magari tenerli nel cassetto – come dimostrano studi della Cgil e della Uil tra il 2008 e il 2015 – giusto in tempo per tirarli fuori alla prima visita dell’ispettorato del lavoro. Un po’ di nero e un po’ di evasione contributiva in settori come il turismo e l’agricoltura dove si decreta la fine dei contratti stagionali. Questa è la traccia lasciata dalla destra sul lavoro: devastante per chi lavora, illusoria per chi investe. Perché se l’Italia non scommette sulla scala alta della competitività – partendo dall’innovazione tecnologica e ambientale – sarà esclusa dai mercati che contano.
C’è chi afferma che sul salario minimo arrivate tardi.
Per la verità il ministro Andrea Orlando durante il governo Draghi ci aveva lavorato alacremente con i sindacati e le parti sociali. Eravamo arrivati a un passo nel luglio 2022. Cadde il governo Draghi e si azzerò il contatore. Non mi va di discutere sulle responsabilità né di scatenare una gara su chi è arrivato prima e chi dopo: abbiamo perso un’occasione. Oggi arriviamo tutti alla stessa conclusione, dopo la sconfitta del 25 settembre. Meglio tardi che mai: adesso ci va costruita una iniziativa politica sopra, a partire dall’estate militante lanciata da Schlein.
Tra i “pattisti” manca l’Italia Viva di Matteo Renzi.
Francamente non capisco. Stiamo al merito delle proposte. Che non delinea un imminente campo di alleanze elettorali. Al massimo siamo davanti a un comune denominatore sociale. Che comunque non è poca cosa. Eviterei di trarre conseguenze che vanno al di là della contingenza. Renzi pare abbia scelto una posizione dialogante con il blocco politico e sociale della Meloni. Lo chiamano terzismo, in realtà è qualcosa di più spinto di una semplice equidistanza. Gli faccio i migliori auguri, in ogni caso, ma non condivido e combatto questa prospettiva. Mi pare che ormai per Renzi valga la massima immortale di Nanni Moretti: mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?
Il “patto” è il primo passo. Il successivo?
Il salario minimo arriverà alla Camera in discussione entro luglio, al massimo slitterà ai primi di settembre. È in calendario d’aula, in quota Pd. Fa parte dei diritti dell’opposizione avanzare proposte che devono arrivare all’attenzione e al voto di tutto il Parlamento. Dopo due mesi di audizioni dove abbiamo coinvolto in commissione Lavoro tantissime forze sociali, economiche, accademiche ora è arrivato il momento di tirare una riga. Noi abbiamo una proposta. La destra che dice? Leggo che la ministra Calderone afferma che non c’è lo spazio per un salario minimo per legge. E che occorre scommettere sulla contrattazione. Benissimo, ci sono 6,8 milioni di lavoratori in attesa del rinnovo – tra questi i lavoratori del pubblico impiego – cosa aspettano a convocare i tavoli? Perché non varano una legge sulla rappresentanza che spazzi via i contratti pirata? La verità è che l’hanno messa lì per mantenere la “tavola quieta”. Il lavoro non è al centro di chi comanda oggi l’Italia. Per loro esiste solo il primato della rendita. Lo vediamo sul Pnrr: hanno in testa un blocco sociale corporativo e parassitario che vede la sfida della transizione ecologica come il fumo negli occhi e che continua ad avere una diffidenza nei confronti del fisco.
Lei è stato l’artefice dell’ordine del giorno “Santanchè”…
Sa cosa trovo insopportabile della vicenda Santanchè? Il fatto che lei come altri abbiano fatto la morale ai poveri per anni. Sul reddito di cittadinanza come sul lavoro. C’è un’intera antologia di dichiarazioni della ministra del Turismo che attacca il reddito fino a definirlo “paghetta di stato”. Peccato che poi si scopra che avrebbe usato la Cassa Covid a zero ore per pagare i propri dipendenti che hanno comunque continuato a lavorare. Se fosse vero saremmo di fronte alla conferma dell’autobiografia di una parte del capitalismo italiano che usa i fondi pubblici per sollevarsi dalle sue responsabilità sociali. Oltre che una forma di concorrenza sleale verso la stragrande maggioranza degli imprenditori onesti che durante la pandemia hanno stretto la cinghia e sono andati avanti. Mercoledì scorso in Parlamento li abbiamo fatti ballare. Secondo me non si erano accorti di cosa stavano votando. Sicuramente non la viceministra Bellucci che si era limitata a leggere il dispositivo e a dare parere favorevole. Ma nel corpo dell’ordine del giorno c’era un giudizio politico inequivocabile sul comportamento delle aziende della Santanchè. Dunque, o sono stati distratti o volevano mandare un segnale interno. Che era tecnicamente una sfiducia alla ministra.
La “luna di miele” tra il governo e il paese è finita?
La Meloni è ancora forte. Non sottovalutiamola. Incontra un vento di destra che c’è in tutto l’Occidente: basta guardare l’ultimo voto in Grecia. Eppure comincia ad affiorare un nervosismo che deriva da una cultura che non ammette il contraddittorio. Lo spettacolo dato alla Camera mercoledì scorso non ha precedenti: anziché rispondere nel merito ha accusato l’opposizione di antipatriottismo. Scaraventandogli addosso persino le figure di Falcone e Borsellino. Mi domando se una presidente del Consiglio che usa l’espressione “pizzo di stato” a proposito delle tasse sia degna di citare due magistrati morti per mano della mafia. E mi assumo la responsabilità di quello che dico.
Il flop sui migranti al Consiglio europeo. Il nervosismo della presidente del Consiglio davanti al “fuoco amico” di Orban e Morawiecki. Sovranisti contro sovranisti?
Per la prima volta si apre una crepa nella narrazione dei nazionalisti europei. I suoi amichetti Orban e Morawiecki strepitano contro l’accordo sull’immigrazione. E la isolano. L’ultimo vertice Ue certifica che la destra non riesce ad avere una strategia comune. Si limita solo a sollevare una paura comune. Poi sulle ricette funziona sempre il principio dei padroni a casa nostra. Per questo sarei prudente ad accreditare la Meloni come una leadership credibile all’estero come vedo fare da larga parte di establishment sedicente liberale. Ci sono classi dirigenti moderate in questo paese che pur di fermare un possibile sbocco a sinistra sono disponibili a ingoiare persino esperimenti reazionari. Ci siamo già passati e non è finita bene.