Scotto: ricostruire è la nostra responsabilità. Via al tesseramento 2020

Politica e Primo piano
Introduzione di Arturo Scotto alla riunione dei segretari regionali e di area metropolitana di Articolo Uno.
1) Veniamo da un lungo ciclo di campagne elettorali.
Da ultimo Emilia Romagna e Calabria hanno rappresentato un turning point significativo per il destino del Governo e più complessivamente per il prosieguo della legislatura.
In particolare, il passaggio delle elezioni emiliano romagnole è stato interpretato e raccontato (persino dalla stampa internazionale) come una sorta di Brexit italiana, l’assalto decisivo della destra sovranista al fortino inespugnabile della tradizione di governo della sinistra italiana, alla sala macchine – come l’ha definita Pierluigi Bersani – del riformismo italiano.
Se Salvini passava lì, avrebbe preso l’Italia. Mai nella storia repubblicana un test regionale aveva assunto i contorni di una vera e propria linea maginot sul futuro dell’Italia.
Il centrosinistra di Bonaccini ha retto innanzitutto perché gli elettori hanno votato la conferma di un governo efficiente e inclusivo, ma anche e soprattutto perché è emersa una reazione verso quella che è apparsa come una vera e propria invasione, un tentativo di trasformare un terreno amministrativo in una guerra di religione.
La Lega – che colleziona un enorme 31 per cento dei consensi – ha polarizzato lo scontro a tal punto da far riemergere quella riserva di energie democratiche che appena cinque anni prima avevano scelto la strada dell’astensionismo e della indifferenza.
Le sardine sono state il lievito di un’operazione di resistenza che ha fatto tornare in campo i fondamentali, a partire dai valori dell’antifascismo, dell’accoglienza della solidarietà.
E’ chiaro tuttavia che questo voto fotografa ancora una volta quella frattura tra ceti medi e classi perdenti della crisi economica, ci descrive il ripiegamento delle aree interne rispetto alla grande città, con il conseguente svuotamento di poteri e di funzioni dei piccoli e medi centri, colpiti dai tagli al welfare ma indeboliti anche dallo smantellamento di quella rete di coordinamento, di programmazione e persino di protezione che erano le province.
Non è un problema di nostalgia, ma sarà un caso che la fine degli enti di prossimità ha fatto riemergere campanilismi e particolarismi che la politica delle aree vaste aveva contenuto per decenni in un paese sociologicamente e geograficamente frammentato?
E’ chiaro che l’Emilia Romagna non è l’Italia e dentro questa vicenda dobbiamo fare i conti con la specificità di quel voto, con la storia e la cultura di un popolo.
Ma quella vittoria rappresenta per il centrosinistra una boccata di ossigeno, un’iniezione di fiducia inevitabile, ma allo stesso tempo ci consegna la seconda sconfitta politica di Salvini in meno di cinque mesi.
E non è solo una questione di arroganza, di carattere, ma anche la certificazione di un’ascesa che si ferma a causa dell’overdose di propaganda ritenuta insopportabile per una quota rilevante di ceti avvertiti che faticano a immaginare una Italexit e uno slittamento del nostro paese verso una deriva autoritaria e illiberale.
Sono sintomi di vitalità che ci parlano non dell’ “Inizio della Fine”, ma della “Fine dell’Inizio” come disse Winston Churchill all’indomani della sconfitta delle potenze dell’asse nazifascista in Egitto verso la fine del 42.
Salvini da domani dovrà fare i conti innanzitutto con uno schieramento di centrodestra più composito e meno disponibile a farsi eterodirigere da un Partito Guida.
Cambiano gli equilibri nella destra, con la crescita della Meloni e un’insospettata capacità di resilienza di Forza Italia che scompare nell’Appennino ma riemerge in Calabria. Si riduce dunque il pavimento espansivo della Lega e si fa avanti un dibattito ancora sotterraneo ma sempre più stringente sulla vocazione nazionale del Carroccio, oltre che sulla difficoltà di radicamento nelle aree metropolitane, uno spazio sempre più angusto per chi privilegia un messaggio semplificato. Il voto delle regionali ci consegna anche un’articolazione nuova nel campo governativo.
I Cinque stelle nei fatti continuano a ristagnare dentro una crisi forse irreversibile. I dati delle due regioni ci parlano di una forza che sfiora l’irrilevanza nei turni amministrativi, addirittura a rischio di superamento degli sbarramenti elettorali. E’ una crisi di messaggio, di catena di comando, di credibilità dei gruppi dirigenti, persino di senso. Con la logica della piazza completamente soppiantata dalla logica del palazzo. Le dimissioni di Luigi Di Maio a quattro giorni dal voto regionale – al di là della volontà del Ministro degli Esteri – sono apparse più come l’8 settembre del Movimento – una  sorta di rompete le righe – che come un gesto orientato a togliere alibi allo scontro interno e a rilanciare una riorganizzazione. Saremmo degli irresponsabili se guardassimo a questo disfacimento come a un fatto positivo: non sta scritto da nessuna parte che l’implosione dei Cinque Stelle aiuti naturalmente il campo progressista a riorganizzarsi e rivitalizzarsi. Oggi siamo costretti a fare i conti con l’emergere di una tendenza alla frammentazione dei grillini che ogni settimana mette a rischio il pallottoliere della maggioranza di governo, alla moltiplicazione di microtendenze che spingono in direzione centrifuga e che non sono un bel biglietto da visita per la stabilità del quadro politico.
Accanto a questi ci sono domande più di fondo, che ci interrogano sui flussi profondi dell’elettorato, sulla sua volatilità, sulla sua emotività, ma anche sulle contraddizioni che animano questa stagione politica.
I Cinque Stelle in un anno e mezzo di Governo hanno mostrato indubitabilmente il loro volto approssimativo e la loro pratica dilettantesca, ma non si può dire che non abbiano portato a casa dei risultati, delle bandiere da sventolare.
Il taglio dei vitalizi e la riduzione dei parlamentari – piaccia o no – sono risultati oggettivo per chi è nato sul terreno della lotta ai privilegi della casta.
La prescrizione – che oggi è nell’occhio del ciclone – come lo spazzacorrotti sono un terreno favorevole per chi ha fatto del giustizialismo un tratto fondativo.
Il reddito di cittadinanza – i cui effetti vedremo dispiegarsi nel tempo e che è una misura, probabilmente in forme e modi diversi, di cui nel futuro non si potrà più fare a meno – comunque copre quel versante sociale che è stato carburante del populismo grillino. E delinea per la prima volta un potenziale ribaltamento dei rapporti tra lo Stato e il cittadino, tra il potere costituito e la società diffusa soprattutto nel sud.
Chi governerà il Reddito di Cittadinanza, in una fase di lavoro scarso, discontinuo e sottopagato, avrà le chiavi di un pezzo di governo del Mezzogiorno e delle aree più disagiate del paese.
Dunque, Di Maio non si presenta ai suoi elettori a mani vuote, eppure perde rovinosamente.
Interrogarsi sulla natura di questa sconfitta è un esercizio doveroso per un gruppo dirigente: ci parla di quanto il governo nelle società occidentali non coincide automaticamente con la tenuta duratura del consenso.
E su come il rapporto con il potere, per una forza che si è presentata ai cittadini come antiestablishment, produca un contraccolpo ferale.
Gli Stati Generali che i M5S faranno nei prossimi mesi saranno in ogni caso un passaggio di fase decisivo.
Si capirà se scelgono la strada di un’alleanza strutturale con i progressisti, cambiando la loro natura di forza trasversale, oppure recuperano la connotazione originaria.
La seconda ipotesi potrebbe rappresentare un’ipoteca seria sul futuro del Governo.
Non può sopravvivere a lungo una compagine di governo se ha in pancia troppi progetti strategici divergenti.
Vale per i Cinque Stelle, ma soprattutto vale per Renzi.
E’ chiaro che i primi mesi post scissione sono stati animati soprattutto da un’ansia spasmodica di visibilità.
Un approccio bulimico alla TV, ai giornali, ai social. Per la verità con risultati tutt’altro che positivi, stando ai sondaggi. E – ancora oggi – facendo traballare il Governo sulla prescrizione.
Il tema non è affermare una parzialità o un punto di vista diverso.
La coalizione che sorregge Conte o è plurale o non è.
Il tema è se la prospettiva di Italia Viva è il centrosinistra o un restyling in senso moderato della destra.
Al momento i temi agitati da Renzi sembrano più orientati a coprire il vuoto lasciato dall’estremismo di Salvini piuttosto che un contributo utile alla ricostruzione di un campo.
Una sorta di bertinottismo neocentrista che lavora sistematicamente sul più uno. Questa instabilità della maggioranza rischia di riverberarsi anche sulla natura dei processi di ricomposizione del campo delle forze di sinistra e progressiste.
E’ chiaro che la connotazione ancora troppo ibrida della coalizione non aiuta a far emergere un’agenda compiuta della svolta, che non è solo un programma, è una bandiera, una direzione di marcia, un’idea di società.
Bisogna che la verifica avviata in questi giorni esca dalla burocratica riproposizione di un cronoprogramma di cose da fare e trasmetta l’Idea di un nuovo inizio.
Dalla resistenza al progetto, insomma.
Il Governo ha fatto meglio nei primi mesi di come si è autorappresentato.
Eppure non basta gestire l’emergenza se il progetto fatica ad emergere.
Sul confronto con l’Europa, sul lavoro, welfare, fisco, decreti sicurezza.
Serve una grande discussione larga e popolare, bisogna mobilitare energie e competenze sulla sfida più importante dei prossimi tre anni, ovvero sull’applicazione del piano che può cambiare il volto del paese: il Green New Deal.
Per noi l’agenda è chiara: bisogna togliere la questione sociale dalle mani della destra.
Tre priorità non sono rinviabili: superare Jobs act e un nuovo statuto dei lavoratori, uno strumento pubblico per gestire le crisi industriali ed accompagnare la transizione ecologica della produzione, una battaglia senza quartiere per la difesa dei servizi universali, a partire dalla sanità (su cui per la prima volta c’è un’inversione concreta e visibile di tendenza).
Abbiamo dimostrato in questi mesi che sinistra e Governo possono andare a braccetto.
Grazie al lavoro di Roberto Speranza innanzitutto, riconosciuto ormai da tutti tra i ministri più capaci del Governo Conte. Insieme alla nostra Cecilia Guerra all’economia – nella sfida difficile di una riforma fiscale che è la chiave principale di ogni idea di redistribuzione – e a Peppe De Cristofaro all’Istruzione formiamo una squadra di primissimo piano.
E anche molto politica, perché i risultati raggiunti finora sono politici, alcuni dei quali scritti nel programma elettorale di Leu, a partire dall’abolizione del superticket. Con il Gruppo parlamentare, guidato alla Camera da Federico Fornaro, stiamo portando avanti un lavoro difficile di raccordo e di stimolo con forze parlamentari ben più cospicue delle nostre, ritagliandoci un ruolo decisivo di mediazione alta anche in materie delicatissime, vedi da ultimo il tema della giustizia.
Dobbiamo far vivere queste battaglie di più nei prossimi giorni, non soltanto in Parlamento.
2 ) Abbiamo insistito su un soggetto nuovo, su un partito democratico e di sinistra in grado di interpretare il bisogno di radicamento nelle aree più disagiate e povere del paese, laddove i progressisti faticano di più a rimettere in piedi una narrazione convincente: questa la piattaforma dell’assemblea nazionale di Articolo Uno a Novembre.
Non credo di dire nulla di particolarmente originale se affermo che restiamo ancora uno schieramento insediato prevalentemente lungo la dorsale appenninica.
Un centrosinistra dell’Italia centrale (e nemmeno tutta) e dei centri urbani tecnologicamente, culturalmente e ambientalmente più avanzati.
Fatichiamo invece nelle aree interne e nel mezzogiorno dove le coalizioni guidate dalla Lega sono ormai cinque regioni su sette. Mancano all’appello soltanto Campania e Puglia.
Non ce la caviamo con una riverniciatura di quello che c’è.
Serve un vero percorso costituente che rimescoli le carte e soprattutto incida sulle fondamenta, chiuda la stagione del neoliberismo a sinistra e promuova una nuova fase di partecipazione.
Il tema non è “venite con noi”, ma costruiamo un tetto nuovo insieme.
Ci siamo? Ancora no.
Ci sono segnali? Per la prima volta sì. Intanto, il tributo concesso da Zingaretti ad Articolo Uno e allo sforzo di elaborazione unitaria dei seminari, che vanno ripetuti anche a livello locale (su temi territoriali e non solo, dall’urbanistica allo sviluppo, dalle crisi produttive all’ambiente, dalla lotta alle mafie alla democrazia) e che vedranno a livello nazionale anche un convegno impegnativo il 21 marzo sulle nuove frontiere del digitale e sul governo democratico della rete (Innovalia) e il 30 marzo con Massimo Cacciari sulle nuove tendenze del capitalismo globale.
Abbiamo bisogno di accumulare competenze, di incrociare mondi vitali soprattutto giovanili, di diventare una delle piattaforme politiche del confronto culturale e valoriale a sinistra.
Il Pd apre la sua fase congressuale a breve. Essa inizia a marzo e si conclude ad aprile. Avrà come scopo principale quello di stabilizzare il nuovo gruppo dirigente attorno a Zingaretti soprattutto dopo la scissione renziana.
Le caratteristiche di questo congresso tematico sono ancora in divenire, ma da quel che si riesce a comprendere avrà un carattere programmatico con la redazione di un Manifesto per l’Italia che potrebbe essere la base della proposta di un nuovo processo costituente.
Zingaretti propone un confronto largo sul territorio anche con chi non è iscritto al Pd, con soggettività politiche, associazioni, movimenti.
Sono per non sottrarci al confronto e ragionare in autonomia sui contenuti che ne verranno fuori.
Il nostro obiettivo è dichiarato: una nuova casa della sinistra democratica italiana, una svolta rispetto agli anni del partito della nazione, della equidistanza tra capitale e lavoro, della dimensione liquida dei comitati elettorali.
Un partito nuovo non si costruisce tuttavia solo sul terreno programmatico.
I programmi come scriveva Federico Engels sono bandiere piantate nella testa dei popoli.
Un programma non è una correzione millimetrica sul lavoro piuttosto che sul fisco.
E’ una direzione di marcia, un’idea di trasformazione della società, oserei dire un apparato ideologico e culturale.
Che rimane nel tempo, non dura lo spazio di una campagna elettorale.
Dobbiamo portare la nostra elaborazione ecosocialista dentro la fase nuova che vogliamo aprire, senza fare sconti e senza dismettere la nostra originalità, la nostra storia, il nostro collettivo politico. Consapevoli dei rapporti di forza, ma attenti a spiegare a tutti, innanzitutto al Pd, che l’Emilia non necessariamente fa primavera, che la notte è ancora lunga e che i restyling sono utili solo a stare sui giornali per qualche giorno, non per ripiantare gli scarponi nelle periferie e nei luoghi del disagio.
Abbiamo bisogno di un dibattito coinvolgente di tutta la sinistra politica e sociale, come fu al tempo della svolta dell’89 attorno a un paradigma nuovo, dove “il nome” e “la cosa” camminano insieme.
Noi dobbiamo testardamente provare a essere dentro questo tentativo, spingere il campo della sinistra a cambiare, provocare una ricomposizione non solo di ceto politico ma di popolo.
Per questo penso che occorra incontrare ufficialmente il Pd ai massimi livelli, interloquire con loro sui passaggi che ci saranno nei prossimi mesi, comprendere come coinvolgere altre soggettività della sinistra e dei movimenti, capire se si può praticare lo stesso obiettivo.
Le forme e i modi le decideremo insieme.
Abbiamo questa funzione: federare, rinnovare, cambiare.
3 ) Le elezioni regionali di maggio saranno un test ben più impegnativo di quello di gennaio.
Per ragioni numeriche e non solo. Intanto nell’arco delle prossime tre settimane ci saranno tre elezioni suppletive: Napoli, Roma e Perugia.
Non uno scherzo: in palio ci sono due seggi al senato, utilissimi a stabilizzare la maggioranza laddove i numeri sono più risicati.
Sulle regionali abbiamo ancora un quadro in via di sviluppo.
Abbiamo ripetuto ovunque i due capisaldi della nostra iniziativa: larghezza del campo, dal Centrosinistra ai Cinque Stelle, e rinnovamento delle candidature per dare il segno di una svolta, soprattutto laddove è più forte la necessità di imporre una discontinuità.
Non sempre questi due presupposti si sono inverati: al contrario, al momento il gruppo dirigente grillino sembra scegliere praticamente ovunque la corsa solitaria (lo è già oggi nei collegi uninominali delle elezioni suppletive e questo dovrebbe preoccupare non poco) e nel Pd si fa fatica a individuare personalità in grado di riaprire la partita con la destra.
In Toscana si è chiuso su Giani, su cui abbiamo operato una convergenza dolorosa e faticosa insieme a tutta la sinistra e che ovviamente sosterremo con la massima lealtà.
Eppure sarebbe stato utile uno sforzo di coinvolgimento in più, ma evidentemente nelle regioni dalle parti del Pd faticano ancora a chiudere con la stagione del renzismo.
Lo stesso vale per De Luca dove i Cinque Stelle continuano a giocare a nascondino nella regione dove elettoralmente sono più forti, non assumendosi la responsabilità e l’onere di una proposta alternativa, ma perpetrando uno splendido isolamento sempre più minoritario, inchiodando un centrosinistra in crisi a conservare quello che c’è.
In Puglia Emiliano rischia, dopo la scelta di Renzi, di correre da solo, un’operazione irresponsabile e maldestra in una regione dove la destra ha rialzato le sue bandiere da tempo.
Mentre in Veneto si fa avanti una candidatura Civica e di sinistra come Lorenzoni, a cui stiamo contribuendo nella definizione già da mesi.
Marche e Liguria invece sono ancora molto aperte.
Nelle Marche potrebbe farsi avanti una candidatura espressione del mondo universitario ispirata da noi e da movimenti e associazioni civiche.
In Liguria invece, dove la pressione sui grillini è molto forte e dove si potrebbe convergere su una personalità del giornalismo indipendente ma vicina al mondo del M5s , sembra riaprirsi uno spazio per battere Toti e la destra.
Insomma, nemmeno in queste elezioni regionali vedremo la traduzione in chiave territoriale dell’alleanza di governo. Almeno non dappertutto.
E questo non è un segnale positivo perché non aiuta a stabilizzare il quadro e ad amalgamare le diverse sensibilità politiche.
In questo contesto, siamo al lavoro per liste larghe civiche, ecologiste e progressiste insediate nel centrosinistra ovunque sia possibile.
Non esiste un modello guida, ogni realtà ha una sua specificità e una sua storia, ma una indicazione c’è: lavoriamo a un’apertura forte alla società civile, ai movimenti, alla sinistra diffusa.
Quanto più sono aperte le liste, tanto più Articolo Uno riesce a costruire uno spazio di agibilità e in prospettiva di elezione. L’esperienza di Emilia-Romagna Coraggiosa è innanzitutto insediata in quel tessuto politico e sociale, difficilmente replicabile altrove in quelle forme (a partire dalla sua Leadership, Elly Schlein, suffragata da un consenso straordinario), ma è stata comunque un segno di vitalità e di responsabilità di Articolo Uno, promotore e federatore di mondi diversi e plurali tra di loro, e che oggi porta in Consiglio regionale Federico Amico a cui facciamo gli auguri.
Questo metodo è un patrimonio decisivo anche per altre regioni ma soprattutto per l’obiettivo che siamo prefissati ovvero la costruzione di un pezzo della costituente che che vogliamo.
Che non può essere solo sommatoria.
4 ) In questo quadro avviamo il tesseramento del 2020.
Le tessere arriveranno su tutto il territorio nazionale entro fine febbraio e con essa partirà anche la campagna del 2xmille che abbiamo bisogno rapidamente di affrontare con maggiore forza rispetto allo scorso anno, legandolo anche ad appuntamenti specifici di mobilitazione e di costruzione di una rete di alleanze con soggetti sociali interessati ad aiutare una sinistra che si rinnova.
5 ) Infine, dal territorio arrivano in queste ore richieste legittime e condivisibili di una posizione sul referendum del 29 marzo.
I deputati di Leu nell’ultimo passaggio alla Camera hanno votato per il ridimensionamento dei parlamentari.
Era nel programma del Conte bis, sottoscritto da Pd, Leu e Cinque Stelle. Sottrarsi avrebbe significato non far partire il Governo.
Abbiamo però aggiunto che questa riforma – per essere effettiva e utile – avrebbe dovuto essere accompagnata da una sistema elettorale proporzionale, da una riforma dei regolamenti parlamentari, da un cambiamento del collegio elettorale del Presidente della Repubblica, riducendo l’impatto delle regioni.
Al momento tutto questo è ancora sulla carta.
C’è stato un accordo tra Pd e M5S su un proporzionale con sbarramento al cinque (noi abbiamo mostrato delle riserve) ma non è iniziato alcun iter parlamentare. Sarebbe una singolare e inedita dimostrazione di tafazzismo se dovesse passare il Referendum del taglio dei parlamentari e poi far permanere il rosatellum.
Un mix pericoloso per la rappresentanza e la democrazia parlamentare.
Per questo il nostro orientamento in questo momento può essere vincolato all’approvazione in prima lettura almeno in un ramo del Parlamento della legge elettorale.
Lo chiediamo con forza prima del referendum del 29 marzo.
Ma su questo discutiamo liberamente, tenendo conto ovviamente della responsabilità che oggi abbiamo al Governo del paese e anche di un senso comune diffuso che guarda purtroppo alla riduzione degli spazi di rappresentanza con favore, perché ancora pienamente dentro la stagione populista.
Questa agenda di lavoro ricca sarà il cuore dell’iniziativa politica dei prossimi mesi, che accompagneremo con assemblee sul territorio e un’assemblea nazionale di Articolo Uno entro il prossimo mese. Abbiamo ancora una volta – perdonatemi l’enfasi un po’ retorica – la responsabilità di un pezzo della ricostruzione della sinistra nel nostro paese.
Buon lavoro a tutti noi.