Intervista a L’Unità
di Umberto De Giovannangeli
Per storia politica e per interesse intellettuale, Arturo Scotto, parlamentare e membro della Direzione nazionale del Partito democratico, è da sempre molto vicino al pacifismo e, in particolare, ai diritti del popolo palestinese.
“L’11 settembre di Israele”, la mattanza di Gaza. E la sinistra?
Nulla giustifica il terrorismo, nemmeno la causa più nobile. Non c’è un “ma” dopo la condanna dei fatti del 7 ottobre: il ripudio dell’orrore deve essere totale. Hamas odia Israele e vuole distruggerla e continua a tenere sotto chiave il suo popolo trasformando la causa palestinese in un grande alibi per conservare un sistema di potere politico, economico, militare. Questo alibi si rimuove con la fine dell’occupazione israeliana.
Oltre 16 anni di assedio hanno fatto di Gaza, ancor più di quanto lo fosse già prima, una enorme prigione a cielo aperto.
2,3 milioni di persone incarcerate in un territorio che è un quarto di Roma dovrebbero creare un moto di indignazione mondiale. Come se la comunità internazionale avesse compiuto un enorme atto di obiezione di coscienza, rimanendo passiva davanti a una violazione così palese delle regole più elementari del diritto. Una striscia di terra dove il 40 per cento della popolazione ha meno di 14 anni, solo il 3 per cento ne ha più di 65, 800000 persone non hanno accesso regolare all’acqua potabile, l’energia elettrica è disponibile per 13 ore al giorno, metà della popolazione attiva è disoccupata e il 60 per cento vive sotto la soglia di povertà. Numeri noti a tutti. Lo dice da anni l’Onu, esistono rapporti di Amnesty e di Save The Children che descrivono la condizione dei minori a Gaza. Il racconto prevalente riduce invece la storia alla sfida della luce contro le tenebre. Quando la qualità del dibattito pubblico scade in un derby calcistico la democrazia soffre. Paradossalmente più qui che in Israele. Dove le colpe di Netanyahu sono sul banco degli imputati molto più che sui media nostrani.
Hamas è riducibile in tutto e per tutto soltanto a un’organizzazione terroristica?
Hamas possiede una capacità di reclutamento di combattenti che fa leva su un esercito di riserva illimitato. Ma soprattutto disposto a tutto. Chi decide di penetrare le linee di Israele e compiere quei massacri sa di non tornare indietro vivo. La potenza ideologica dell’islamismo politico si salda con la disperazione sociale. Hamas non la sradichi bombardando i civili. Così rischi solo di gettare le basi per un’estensione del conflitto, alimentando odio e rancore che durerà per generazioni con ripercussioni anche in Occidente. Perché può aprirsi una faglia pericolosa lungo la suggestione dello scontro di civiltà: le destre sovraniste da tempo lavorano a questo.
Israele rivendica, praticandolo, il diritto di difesa.
Il diritto a difendersi non equivale alla licenza di colpire indiscriminatamente ospedali, abitazioni, scuole. Se i numeri dei morti sono questi già oggi – più di ottomila, compresi 3000 bambini – la situazione è destinata a peggiorare. E i morti chiamano altri morti. Gli stessi americani con toni felpati chiedono: spiegateci qual è la vostra strategia. E raccomandano: non fate come noi nel post 11 settembre. La vendetta non è sinonimo di giustizia.
All’Onu l’Italia si è astenuta sul cessate il fuoco a Gaza.
L’ha fatto, a differenza di Francia, Spagna e Portogallo. Il segno inequivocabile di una politica estera confusa e priva di autonomia. Che fa il paio con l’incapacità ormai patologica dell’Ue di esercitare una pressione diplomatica e un ruolo geopolitico. Divisa in tre posizioni: una bancarotta. Oltre che la certificazione della propria inutilità. Un esempio: abbiamo ritirato 22 carabinieri da Gerico che dovevano addestrare la polizia di Anp. Crosetto dice: questione di sicurezza. Mi sarei aspettato qualche spiegazione più articolata. Se diamo un segnale di dismissione persino dalla Cisgiordania (l’Onu chiuse pochi anni fa la missione di osservatori Tiph a Hebron con il compito di monitorare le violazioni dei diritti umani) ammettiamo che la comunità internazionale se ne lava le mani. L’Italia è presente in Medio Oriente, conservando prestigio e capacità di dialogo. Penso alla Missione Unifil in Libano: dobbiamo difendere quei presidi di pace che consentono ancora di dimostrare a popoli disperati che la comunità internazionale c’è, lavora per disarmare le parti e proteggere i civili.
Che fare da subito?
Chiamiamola come vogliamo: pausa o tregua umanitaria, ma bisogna fermare questa carneficina. Il cessate il fuoco definitivo passa per questa scelta immediata. Innanzitutto, per accelerare la liberazione degli ostaggi e alleviare le sofferenze della popolazione civile. Non vedo alternativa a una missione multinazionale sotto il cappello delle Nazioni Unite a guida araba – coinvolgendo il Qatar – per mettere in sicurezza i civili a Gaza, aiutare la ricostruzione, accompagnare un processo di rinnovamento delle sue istituzioni. Deve essere percepita come una forza non ostile perché il primo tema si chiama disarmo di quell’area e riapertura di una possibilità di pace.
Ma il dialogo ha ancora spazio nei due campi?
In Israele e Palestina il campo della pace si è ristretto. Aver fatto uscire dall’agenda della diplomazia la prospettiva di uno stato palestinese ha gonfiato le vele del fanatismo. E Hamas oggi rappresenta più di quello che immaginiamo: nella testa di milioni di palestinesi è il partito che li difende, mentre l’Anp purtroppo appare statica, corrotta e collusa anche in Cisgiordania. Dobbiamo fare i conti con questo indebolimento se vogliamo intervenire per bonificare i giacimenti d’odio che rafforzano il consenso delle forze islamiste. Se l’obiettivo è quello di dividere il destino della Palestina da Hamas dobbiamo riattivare la forza della politica, non la logica della guerra. Mi hanno colpito le parole di Ami Ayalon, ex capo dello Shin Bet, non certo una colomba: “La sicurezza e la sopravvivenza di Israele passano attraverso la restituzione di una speranza ai palestinesi”. Puro buonsenso.
“Due popoli, due stati”. Un’illusione?
Può apparire retorico ribadire la soluzione di due popoli due stati, quella progettata a Oslo, da cui scaturì la stretta di mano tra Rabin e Arafat. Oggi sembra più uno slogan che un approdo possibile. La geografia, prima ancora che la politica, ci dice che uno stato palestinese è di difficile realizzazione. Non esiste uno stato senza continuità territoriale, ormai divorato da insediamenti coloniali protetti militarmente dall’esercito israeliano che – come denunciato persino da Francia e Usa – sono le rampe di lancio di attacchi mortali a civili palestinesi. Se guardiamo le cartine, la Palestina futura appare come un formaggio gruyere, bucato da tutte le parti. Continuo a difendere questo principio, aggrappandomi a qualcosa che può sembrare utopistico. Ma occorrono atti concreti che lo determinino. Essi passano attraverso il rispetto del diritto internazionale, ma anche con il coraggio degli stati democratici che continuano a usare questa formula. Come l’Italia ad esempio. Giorgia Meloni – a parole più prudente del suo vice Salvini che invece chiama alla difesa dell’Occidente insieme alla Le Pen riesumando tutto l’armamentario islamofobo dell’estrema destra – ha dichiarato in Parlamento che la prospettiva resta quella di due stati che vivano in pace e in sicurezza. Forse è arrivato il momento di riconoscere nelle sedi internazionali lo Stato di Palestina. Nel febbraio 2015 la Camera votò questo principio attraverso una mozione largamente unitaria. Lo ricordo perché la costruimmo insieme da versanti diversi con Roberto Speranza – lui capogruppo del Pd, io di Sel – e fu una scelta forte a cui non fu dato seguito. Eppure sta lì. È un atto ufficiale della Camera. Facciamolo camminare.
Altre strade sono percorribili?
Ricorderai, caro Umberto, un colloquio di qualche anno fa con Abraham Yehoshua a Tel Aviv sulla prospettiva di uno stato binazionale. Una confederazione di due stati indipendenti e sovrani sul modello dell’Ue degli albori che progressivamente porti a un rafforzamento di istituzioni comuni. Oggi lo rilancia lo storico negoziatore di Oslo Yossi Belin e dal versante palestinese Mustafa Barghouti. Riflettere su questo sbocco non equivale ad acchiappare nuvole. È realismo politico.
Di fronte alla tragedia in atto a Gaza, dove sta il Pd?
Il Pd ha lavorato a unire le opposizioni. Il 10 ottobre ha promosso una mozione con Cinque Stelle e Avs: condanna senza appello ad Hamas, no all’escalation militare, rispetto del diritto internazionale. Elly Schlein stessa ha ribadito che noi ci sentiamo a nostro agio in tutte le piazze che mettono al centro una domanda di pace e di giustizia. Sarà così anche l’11 novembre a piazza del Popolo.
Sento già i Paolo Mieli o gli Ernesto Galli Della Loggia: ecco il Pd che si radicalizza a sinistra…
Rischi di radicalismo a sinistra? Ma di che parliamo? “Credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse da cinquant’anni nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista”. “Contesto l’uso della lotta armata all’OLP, non perché ritengo che non ne abbia diritto, ma per l’esame del contesto che è cosa diversa”. Sono due frasi pronunciate da Andreotti e Craxi, due convinti atlantisti, il capo della destra democristiana e il leader più anticomunista che i socialisti abbiano avuto. Oggi probabilmente verrebbero scambiati per pericolosi sovversivi, ma rendono, pur con un approccio difficilmente condivisibile oggi, l’idea che c’è stato un tempo in cui le classi dirigenti avevano una lettura più problematica sulle conseguenze dei conflitti. L’Italia pesa se, nel rispetto delle sue alleanze tradizionali, riesce a muoversi negli interstizi della diplomazia per spingere obiettivi di pace. È il ruolo che la storia e la geografia ci assegnano. Usiamolo.
Resta la chiamata alle armi pro Israele, propagandata dalla stampa mainstream.
Mi angoscia lo sdoganamento della guerra come fatto ordinario. Ma la guerra non restituisce mai giustizia, semmai richiama disordine. Così si va dritti alla conflagrazione atomica. Una follia. Vanno riscritte le regole di una nuova coesistenza pacifica. Dopo l’89 l’illusione di un solo polo dominante ha alimentato nel lungo periodo fattori molteplici di instabilità. Ne sono più consapevoli nell’élite statunitense che nei circoli stanchi della vecchia Europa. Per questo trovo incredibile il tentativo di delegittimazione dell’Onu. Non porterà nulla di buono.