di Arturo Scotto
L’operazione “Fonte di Pace” condotta dalla Turchia non è solamente un imbroglio linguistico, ma un rischioso punto di non ritorno. Per le conseguenze che essa avrà innanzitutto nella stabilità di quell’area e del mondo intero. Ma anche e soprattutto per la coscienza di qualsiasi persona che si dichiari democratica.
1. Erdogan sconta un calo significativo di consensi nel suo paese. La sconfitta di Istanbul è emblematica. Non dimentichiamo che prima di iniziare la scalata alla Presidenza lui ne era stato sindaco per molti anni. E proprio su Istanbul provò la spallata di Gezi Park, dove cercò di imporre definitivamente il proprio modello di governo liberista e islamista: centro commerciale e moschea, capitalismo e fondamentalismo. Non era un’operazione immobiliare, ma un’idea di società.
2. La recessione sta mettendo in ginocchio la stabilità di quel paese. La bolla immobiliare su cui Erdogan aveva impostato gran parte della sua politica economica è esplosa. La Turchia è esposta a forti scosse speculative – armate anche dagli Stati Uniti – che possono produrre un tracollo definitivo della sua macchina produttiva e finanziaria. D’altra parte la lira turca nel 2018 è stata svalutata del 30 per cento e la disoccupazione ha cominciato a galoppare incessante oltre il 14 per cento. Parliamo di una media potenza regionale che è costretta a ridimensionare le proprie ambizioni d’influenza dopo l’abbuffata di tassi di crescita vicini alle a due cifre degli anni duemila e l’illusione di un miracolo economico costruito su basi fragilissime.
3. La Turchia ha ricevuto tanti soldi dall’Europa per trattenere i rifugiati ed attutire l’effetto che avrebbe avuto sulle società europee un milione di siriani a spasso per Berlino, Roma e Parigi. Erdogan minaccia di farli andare ad occidente se le cancellerie europee non lo lasciano in pace. Ma è un’arma spuntata: non può fare a meno di 7 miliardi l’anno. Bisogna rispedire chiaramente questo ricatto al mittente.
4. In realtà Erdogan ha bisogno di quei migranti per spingerli verso il nord-est della Siria e impiantarli lì. Punta a spostarne due milioni: significa innanzitutto rilancio del mattone, dei servizi, delle infrastrutture, gas. Luoghi dove investire soldi e far respirare i suoi finanziatori storici, a partire dal Qatar. Oltreché una formidabile lavatrice etnica che spingerebbe i curdi fuori dal proprio territorio naturale, annientandoli definitivamente e sradicandoli politicamente e culturalmente.
5. Il Daesh non esiste più come stato. Ma i miliziani del Califfato sono ancora sul campo e colpiscono duro. Le truppe dello Ypj continuano a combattere sul fronte di Raqqa senza esclusione di colpi, perché gli atti di terrorismo si stanno moltiplicando ed Al Baghdadi è tuttora a piede libero. I curdi d’altra parte hanno tra le mani una bomba ad orologeria che sono i militanti islamisti arrestati e in attesa di giudizio. Sono decine di migliaia, comprese donne e bambini detenute nelle carceri curde. Che cosa accadrà?
6. I curdi chiedono da tempo l’Istituzione di un Tribunale internazionale per processare i jihadisti. Lo vogliono per due motivi: per confermare il loro ruolo davanti al mondo di liberatori dall’Isis, ma anche perché una condanna dei terroristi obbligherebbe una ricollocazione negli Stati di provenienza, a partire dai Foreign fighters che sono tantissimi. Nessuna risposta finora: evidentemente meglio mettere la polvere sotto il tappeto.
7. I prigionieri islamisti sono dunque un altro pezzo della partita che sta giocando Erdogan: se vanno sotto la sua giurisdizione cosa succede? Nella gestazione in vitro dell’Isis Ankara ha avuto un ruolo tutt’altro che secondario: dalla logistica alle armi, passando per una strategia di implosione della Siria per contenere la minaccia sciita. Non è un caso che tra gli obiettivi bombardati ci siano pure i campi di detenzione. E chissà se nei prossimi giorni questa azione non favorisca fughe spettacolari con la copertura dell’esercito turco. Altro che lotta al Terrorismo.
8. Serve – come chiedono da tempo i curdi – una forza di Peace Keeping a tutela della popolazione civile, che separi la Turchia dalla Rojava e metta in sicurezza le strutture vitali di quel territorio. Quella che la comunità internazionale non ha mai voluto. Non sarebbe la prima volta che i curdi dopo aver fatto la propria parte, vengono abbandonati a se stessi: chi non ricorda cosa accadde all’indomani della prima guerra del Golfo? Furono lasciati massacrare da Saddam senza che nessuno muovesse un dito. I curdi vanno chiamati al tavolo della pace nella gestione del dopoguerra siriano e nella ricostruzione di un nuovo stato che non può non fondarsi sulla giusta richiesta di autonomia federale.
9. Infine, la partita è più grande degli interessi immediati. E’ più grande persino degli effetti di una guerra che non puo’ dirsi proporzionata – come stoltamente sostiene di segretario generale della NATO Stoltemberg – perché si tratta di un’invasione vera e propria e di una violazione del diritto internazionale. In gioco c’è un pezzo dell’identità e dei valori per i quali ci siamo battuti. I curdi sono un avamposto laico in un pezzo di Medio Oriente che sta scivolando verso il Medio Evo della regressione fondamentalista, delle dittature, delle guerre permanenti. Non possiamo abbandonarli per queste ragioni. Altrimenti non avremo più il diritto di parlare di libertà delle donne, multiculturalismo, difesa delle minoranze etniche. Quello straordinario modello di autogoverno che porta il nome di confederalismo democratico va difeso senza ambiguità.