Intervista a Il Riformista
di Umberto De Giovannangeli
Arturo Scotto, deputato dem, coordinatore nazionale di Articolo Uno, è uno dei quarantasei parlamentari che non ha votato il decreto, il sesto, per l’invio di armi all’Ucraina. E a Il Riformista ne spiega le ragioni.
La guerra sembra essere l’orizzonte mentale del nostro tempo. Ora la discussione si sviluppa attorno all’invio o meno di truppe, oltre che di carri armati e missili.
La convinzione che la guerra non finirà mai è la trappola principale del nostro tempo. Genera stanchezza, rassegnazione, paura. Questo sentimento si è radicato nelle teste di milioni di persone, innanzitutto europee, che vivono una condizione di sospensione assoluta tra l’orrore che si è manifestato sinora e quello che non si è ancora dispiegato. In mezzo la difficoltà di uscire dalla pandemia, dalla crisi energetica, dall’inflazione che mangia il potere d’acquisto delle classi medie europee.
In tutto questo, la politica?
A quasi un anno dall’inizio del conflitto ucraino e dall’invasione della Russia la politica sembra aver scelto di disertare e di passare la mano alla scientificità vera o presunta della dottrina militare. Emblematico il vertice di Ramstein compresa la pressione fortissima, riuscita, esercitata sul cancelliere tedesco Olaf Scholtz sull’invio dei tank Leopard. Si stanno riscrivendo gli equilibri geopolitici del continente, ma nessuno ne parla come se fosse materia secondaria. Sappiamo questo cosa significa sul piano storico e simbolico. Occorre avere il coraggio invece di fare un bilancio. Il ritorno della politica per me si chiama Europa, perché unica “potenza politica in potenza” sul piano internazionale che non ha alcun interesse al prolungamento di questa carneficina insostenibile. La brutalità dei missili russi a Dniepro è solo l’ultimo esempio di quanto siano i civili le vittime di una guerra insensata. Non esiste lo spazio europeo senza pace ai suoi confini: è nata per questo motivo, si tratta della sua missione fondativa e dell’immaginario che l’ha tenuta in piedi nonostante l’incapacità di affiancare all’architettura economica un’altrettanto cogente architettura politica. Alleati con la Nato, perché quella vocazione storica e geografica non può e non deve essere rimossa, ma con l’ambizione di essere autonomi sul piano strategico e capaci di dotarsi di una politica estera e di sicurezza comune propria.
Mission impossible?
Questa impresa è naufragata, diciamolo in maniera chiara, quando l’Europa ha segnalato la sua impotenza a far rispettare gli accordi di Minsk e nell’incapacità di impostare una strategia condivisa all’indomani dello scoppio del conflitto. Non c’è dubbio che l’Ue dovesse dire chiaramente da che lato del conflitto si collocava e aiutare l’Ucraina a restare in piedi. Ma prendere parte non significava limitarsi a essere parte passiva dello scontro e rinunciare a impostare una nuova politica di cooperazione e sicurezza con la Russia. E invece è partito un dibattito pericoloso, condito da forme di neomaccartismo fuori dal tempo e dalla storia, attorno a chiunque avanzasse un minimo di critica alla strategia della Nato e all’afasia dell’Europa.
Quali soluzioni all’orizzonte?
Oggi non si percepisce nemmeno l’ombra di un’agenda diplomatica, nessuno accenna alla necessità di una nuova Helsinki, ma si tocca con mano il via libera a una ulteriore escalation di armamenti con un coinvolgimento sempre più forte degli alleati Nato. Le armi chiudono, è la politica che apre. E qui stiamo preparando ai confini d’Europa una stagione prolungata di nazionalismi destinati a durare nei secoli, ad alimentare conflitti di sangue e di religione. E il nazionalismo porta sempre e solo la guerra nella storia dell’umanità. D’altra parte questo conflitto consegna i paesi fondatori dell’Europa a una dimensione sempre più periferica e delinea un nuovo atlantismo lungo l’asse Washington-Londra-Varsavia. Sembra lo stesso scenario dell’Iraq del 2003, con il piano Rumsfeld che puntava a spaccare innanzitutto l’Ue e schiacciarne qualsiasi vagito di autonomia. Significa che cambia naturaliter la catena di comando del vecchio continente sacrificando il nucleo fondatore dell’Ue: intendiamoci, non per responsabilità di chi sostituisce, ma soprattutto di chi si fa sostituire.
E l’Italia?
Il governo ha presentato l’ennesimo decreto che per un anno destinerà all’Ucraina altre risorse militari, senza che il Parlamento possa incidere davvero perché sarà l’esecutivo a scegliere con gli alleati quali e quanti dovranno essere gli equipaggiamenti da inviare a Kiev. Una cambiale in bianco senza che sia chiaro per quali obiettivi militari e per che arco temporale. E senza uno straccio di road map politica se non un appello sempre più forte quanto discutibile alla necessità di vincere la guerra. Vincere la guerra contro una potenza nucleare significa mettere nel conto l’armageddon: alla fine non resterà nessuno in piedi. Vincere la guerra significa certificare che l’Europa è parte del conflitto, che la Nato è parte del conflitto, che le nostre società sono parte del conflitto. La domanda è quale è l’obiettivo finale? Riprendersi la Crimea? Rovesciare il regime di Putin? Disgregare la Federazione Russa? E chi mettere al suo posto? Possiamo davvero non porci queste domande? Oppure continuare con una coazione a ripetere che cancella dall’orizzonte la parola negoziato. Le conseguenze di questa impostazione talvolta assumono caratteristiche evidenti quanto inquietanti: chiunque si tiri fuori o è un collaborazionista di Putin o è antipatriottico. Compreso quel popolo della pace che ha sfilato a Roma e in tante altre capitali europee che chiede un ruolo più assertivo della diplomazia e un bando delle armi nucleari. Perché la pace è innanzitutto una politica, non una semplice bandierina etica da agitare. Il regime di Putin vive e si consolida sulla mobilitazione militare permanente, nella mitizzazione della cittadella cinta d’assedio dal nemico alle porte. Solo la politica può smontare questo armamentario da guerra fredda, solo la politica può costruire ponti con una società civile russa che chiede libertà, solo la politica può riaprire la sfida per l’egemonia dei diritti umani, la democrazia e la coesistenza pacifica. Non ho votato il decreto sugli aiuti militari all’Ucraina non perché sono un’anima bella. Ma perché credo nella forza della politica e non accetto che si riposi. La scorciatoia più deresponsabilizzante di tutte oggi significa continuare ad alimentare la guerra. Il senso di responsabilità a me oggi dice invece altro.