Pubblicato su L’Unità
di Arturo Scotto
Mi ha colpito molto l’appello ai giovani di Aldo Tortorella di lancio della manifestazione di oggi organizzata dalla Cgil e da oltre cento associazioni laiche e cattoliche. Scendete in piazza anche per chi non può farlo, per chi è anziano e chi è ammalato. Un vecchio partigiano e prestigioso dirigente comunista che davanti a una destra che non ha reciso le radici col fascismo prova a passare idealmente il testimone. E quel testimone si chiama lotta per i diritti di tutti. C’è una generazione che il lavoro lo ha conosciuto soltanto attraverso la trappola della precarietà o l’umiliazione del sottosalario. Sono quelli che oggi hanno venti o trent’anni a cui era stato promesso un mondo di opportunità dopo l’89 e invece hanno conosciuto l’11 settembre e le guerre preventive di Bush, il G8 di Genova e l’abdicazione dello stato alle regole democratiche, gli effetti di una crisi finanziaria partita dall’America e precipitata nel vecchio Continente attraverso lo smantellamento dei sistemi di welfare universali, i cambiamenti climatici che trasformano il rapporto tra uomo e natura e producono esodi biblici, una pandemia terribile che ha rubato il tempo e di nuovo il ritorno degli eserciti nel cuore dell’Europa e il ritorno di una guerra tiepida tra superpotenze con conseguente corsa al riarmo. Un ciclo di traumi, che ha bandito dall’orizzonte il principio cardine della speranza e prodotto una secessione sentimentale tra vecchie e nuove generazioni.
Farci i conti è un dovere della sinistra e un obbligo per il sindacato. E la manifestazione incrocia questa domanda e la mette esattamente dove dovrebbe stare: nella strada maestra della Costituzione. La destra investe invece su altro: sulla frantumazione corporativa della società, su un’idea di capitalismo fondato su bassi salari e scarse tutele, su una domanda di senso che sfocia nella reazione del Dio Patria e Famiglia. O nella versione di chi ci governa di Dio, Patria e “tengo” Famiglia. E sulla rimozione della realtà. Il caso del salario minimo è da manuale. Tre milioni e mezzo di lavoratori poveri al di sotto di 9 euro, voratori poveri al di sotto di 9 euro, 6 milioni di lavoratori fragili che pur lavorando sono poveri e la risposta che in sei mesi di dibattito – in Parlamento e nel paese – la destra ha fornito è stata quella di chiedere al Cnel uno studio. Per paura di prendere una linea dritta la strategia è stata quella di rinviare la palla in tribuna, destituendo di fatto la ministra Calderone e mettendo in stand by il Parlamento. Le prime conclusioni del Cnel con un documento di analisi – dove c’è stato il voto contrario della Cgil e l’astensione della Uil, prima volta da anni – erano abbastanza scontate.
Dovrebbero rispondere a questa domanda: ritengono democratico, occidentale, liberale, civile lavorare sotto 9 euro lordi l’ora, in un Paese come l’Italia? Quando in Francia e in Germania il salario minimo è a 11 e 12 euro, rispettivamente? Non so da quale cattedra si possa asserire che il salario minimo indebolisce la contrattazione. In Germania sicuramente no, visto che quattro mesi fa sono stati i sindacati metalmeccanici che hanno chiesto e ottenuto l’aumento delle retribuzioni minime e siglato un contratto che sterilizza l’inflazione con aumenti dell’8,5 per cento per 3,9 milioni di tute blu. Nella nostra legge neppure, visto che si dà un indirizzo chiaro nella direzione di una legge sulla rappresentanza che restituirebbe potere al lavoro e spazzerebbe via contratti capestro. La relazione del Cnel dice che il salario minimo in Italia sarebbe di circa 7 euro all’ora, se si dovesse calcolare con i criteri indicati dalla direttiva Ue sul tema, dimenticando che i dati a cui fanno riferimento sono del 2019. Nel frattempo è passata un’era geologica. C’è stata una pandemia, una guerra e un tasso di inflazione schizzato all’11,5%. In più il calcolo tiene conto di tutti i contratti, non solo quelli più rappresentativi, come chiediamo noi.
Quello su cui non sono d’accordo in fondo è la natura riformista della nostra proposta. Perché parliamo di una “riforma”, non di un numeretto messo a caso. “Riforma” perché lo slittamento del Pil dai salari a rendite e profitti – 11 punti in un ventennio – ci racconta di quanto la forbice della diseguaglianza si sia allargata in maniera insostenibile. II 17 ottobre la nostra legge torna in Parlamento: è una prerogativa insindacabile dell’opposizione. Se proporranno l’ennesimo rinvio – magari in Commissione per metterla su un binario morto – certificheranno la loro fuga.
Chiediamo alla destra di dire sì o no a una misura di civiltà che è entrata nel suo corpo elettorale – perché non c’è una famiglia in questo paese dove non ci sia qualcuno che lavora con salari da fame – e che l’ha messa per la prima volta all’inseguimento di un’opposizione finalmente unita dopo l’autodafé del 25 settembre. Unita anche nella raccolta di firme che sta mobilitando centinaia di migliaia di persone. E spero disponibile anche a condividere la piazza lanciata l’11 novembre dalla segretaria del Pd Elly Schlein contro la politica economica di questo Governo. Che assume tratti sempre più inquietanti e pratica un vero e proprio sovversivismo delle classi dirigenti attraverso forme di dossieraggio di stato che fanno tremare le vene ai polsi.