di Arturo Scotto
Quando un conflitto viene dimenticato la prima vittima è la verità. Perché quello che non viene più raccontato finisce per sfumare nella rappresentazione rassicurante e ipocrita di un grattacapo irrisolvibile. Come dire, è andata così, impossibile mettere le brache al mondo. Poi arriva improvvisamente il cazzotto violento della cronaca che si trasforma in storia e diventa difficile persino per le pigre – e spesso conniventi – classi dirigenti occidentali fare finta di nulla. Umberto De Giovannangeli su Globalist prova a rimettere in ordine le cose e non esita a parlare del rischio di “doppiopesismo” della comunità internazionale e persino di tutti coloro che si sentono democratici e di sinistra davanti all’omicidio per mano israeliana della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh.
Nessuno parla più di Stato di Palestina: una parola proibita per una pace proibita. Nessuno si azzarda a ricordare che se è giusto aiutare un popolo che si difende da un’aggressione – oggi la guerra in Ucraina dice questo – è impossibile voltarsi dall’altra parte davanti ad altri popoli umiliati e offesi nel loro diritto all’autodeterminazione da più di mezzo secolo.
Il funerale imponente di Shireen Abu Akleh ci ha lanciato due messaggi chiari. Innanzitutto, che c’è un popolo vivo e vegeto, che sta ancora in piedi nonostante le sconfitte e gli errori della sua leadership e che si è unito come non mai davanti all’uccisione di una giornalista che era un esempio insostituibile della coesione nazionale proprio perché cristiana e dunque simbolo di chi vuole vivere in pace e nella diversità. E poi che c’è una linea rossa che non si può superare mai: il diritto di un popolo a seppellire i propri morti senza che qualcuno possa decidere quale vessillo innalzare e quale dio pregare e con chi. E quando accade questo la comunità internazionale dovrebbe soccorrere la vittima, non attardarsi a capire cosa intende fare il carnefice. Altrimenti siamo davanti all’ennesima prova di un relativismo etico insostenibile, dove anche la parola democrazia viaggia a diverse velocità perché seleziona le cause per cui battersi a seconda di un puro principio di convenienza. Anche per questo la democrazia rischia di non apparire più attrattiva per masse umane ingenti che la percepiscono come un lusso dei paesi ricchi, sviluppati e declinanti. Israele è un alleato dell’Occidente e va sostenuto il suo diritto alla sicurezza: lo dice il realismo politico, non solo il peso della storia e delle responsabilità dell’Europa durante la seconda guerra mondiale. Ma quel diritto alla sicurezza non sarà mai fino in fondo garantito se non c’è uno Stato di Palestina riconosciuto internazionalmente, con dei confini chiari e indiscutibili, con l’autonomia di scegliere liberamente chi li deve governare, con una moneta e un esercito.
Quando Amnesty ha presentato un rapporto dettagliatissimo sull’apartheid subita quotidianamente dai cittadini palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è piombato un silenzio spettrale nelle cancellerie europee. Nessuno che lo abbia preso tra le mani e sfogliato, nessuno che lo abbia citato in un discorso parlamentare o in un vertice tra capi di governo, nessuno che abbia chiesto spiegazioni negli organismi internazionali in cui siedono tutti i paesi. Un dente da togliersi subito per evitare polemiche scivolose nel pieno della crisi ucraina. Poi è arrivato il trauma della giornalista di Al Jazeera. In Europa si sono svegliati (quasi ) tutti per condannarlo.
E persino negli Usa, forse perché Shireen Abu Akleh aveva anche la cittadinanza americana. Tant’è che il governo Bennett si è affrettato ad archiviare tutto senza accettare un’inchiesta indipendente in grado di chiarire a loro quello che pare chiaro invece al mondo intero. Adesso bisogna evitare che tutto finisca nel dimenticatoio. Ora che persino la crisi ucraina ci ha detto che non siamo mai usciti dal secolo dei nazionalismi e che essi restano un moltiplicatore straordinario di guerre. Ora va riconosciuto lo Stato di Palestina come leva fondamentale per riaprire un negoziato efficace e risolutivo. Il riconoscimento non può avvenire dopo perché non c’è più un oggi da cui partire, in quanto le trattative sono arenate da ormai quasi un decennio e l’espansione coloniale di Israele si è mangiata tanta parte di quella terra su cui dovrebbe poggiare il nuovo stato. Ci vuole dunque uno strumento, una leva per spingere le parti a sedersi allo stesso tavolo e costringere la parte più forte a trattare davvero.
Non si è mai fatta la pace tra chi è troppo debole e chi è troppo forte. Quando i rapporti di forza sono troppo sbilanciati non resta che la strada della resa o dell’annessione. O della guerra perpetua. Che coinvolge altri civili innocenti e si trasforma in un alibi permanente per chi usa – anche nel mondo arabo – i torti subiti dai palestinesi per giocare altre partite geopolitiche. Che con il destino dei palestinesi non hanno nulla a che spartire. Se c’è ancora in circolazione una sinistra con un po’ di sale in zucca essa ha il compito di far aprire gli occhi ai sonnambuli che considerano la pace in Medio Oriente un’impresa disperata, senza avere paura di dire cose scomode mettendosi dal lato di chi ormai non ha più voce da nessuna parte. D’altra parte, quelli che hanno voce ovunque, nei palazzi del potere come nelle redazioni dei giornali, come è noto non hanno bisogno di qualcuno che li difenda. A loro basta solo alzare il telefono.