di Valerio Valentini
L’equivoco è ciò che sta al fondo della tensione: “Che discutere alla pari con Washington sia un voler uscire dalla Nato, che il pacifismo sia una forma di filoputinismo”. Insomma la svolta che in parecchi temono, il paventato abbandono della linea della fermezza di Enrico Letta sull’Ucraina, Arturo Scotto sembra quasi suggerirla: “Non chiedo svolte repentine. Chiedo che il nostro punto di vista, quello di chi predica le ragioni di un’iniziativa diplomatica, possa avere cittadinanza nel dibattito interno al Pd, che attraversi la carne viva del partito come attraversa già l’opinione pubblica”.
Parla con la nettezza di chi non nasconde le sue convinzioni: quando, a fine gennaio, si rinnovò il sostegno militare all’Ucraina per il 2023, il coordinatore di Articolo Uno, eletto alla Camera nelle liste dem e sostenitore di Elly Schlein al congresso, votò contro. “Non ho cambiato idea”, spiega. “Credo sia necessario aiutare Kyiv a resistere all’invasione, non credo si debba sostenere questa escalation militare che sta trasformando una guerra di resistenza in una guerra di attrito”.
Eppure per tanti esponenti del Pd quella dell’invio di armi a Zelensky è una linea rossa. “Non esistono linee rosse. Esiste la politica. Mettere al bando preventivo delle idee, pretendere che a un anno dalla guerra non si possa aprire una riflessione, sarebbe miope”.
Tanto più, prosegue Scotto, che Schlein “ha detto parole molto chiare. Occorre scommettere sul negoziato. Senza colpi di testa. E del resto, a evidenziare come la posizione di Biden, che punta quasi a spostare l’asse strategico europeo a est, sia in contraddizione con gli interessi europei, è stato un certo Romano Prodi. Che la linea della guerra a oltranza sia miope, lo dice sia Papa Francesco sia il segretario generale dell’Onu. E a parlare di un ritorno alla prospettiva di Helsinki è stato Sergio Mattarella”.
Il quale, però, sul sostegno militare all’Ucraina è stato risoluto. Quanto ad António Guterres, l’ultima volta chi si recò a Kyiv si ritrovò sotto le bombe di Putin. “Le colpe di Putin sono innegabili. Ma è chiaro che lui un negoziato non lo aprirà mai se non ha una risposta rispetto a una via d’uscita. Non ci siamo interrogati su quali siano i suoi obiettivi”. Non è un legittimare l’uso brutale della forza, questo? “Mai. La pace però si fa tra nemici, sennò è guerra infinita. E qualcosa va concesso al nemico, per avere la pace. L’alternativa è il suo annientamento: ma qui parliamo di una potenza nucleare. Noi, certo, dobbiamo sapere quali sono i nostri imperativi. Salvaguardare l’integrità dell’Ucraina come stato indipendente, la sua prospettiva di paese democratico. Ma come? Davvero possiamo tornare ai confini di prima del 2014, Crimea compresa? E quale statuto riconoscere alle regioni russofone del Donbas oggi sottratte illegalmente da Putin?”.
Sono le tesi di chi in effetti predica una svolta radicale. Tipo Giuseppe Conte. “Sarebbe logico se su questo, come su altri temi, si ricreasse da posizioni differenti qualche convergenza col M5s”. E se si arrivasse a un voto in Parlamento sul tema, cosa dovrebbe fare il nuovo Pd di Schlein? “Contribuire a elaborare una posizione nuova che metta al primo piano le ragioni del negoziato. Fedeli, peraltro, alla nostra storia. Anche nelle fasi più drammatiche della Guerra fredda, l’Italia riusciva a muoversi negli interstizi dell’alleanza per costruire le ragioni del dialogo. Ed era l’Italia democristiana: qualcuno riteneva Andreotti poco atlantista?”.