di Arturo Scotto
Il vittimismo non è una categoria della politica. Figuriamoci se a farvi ricorso è chi governa, chi detiene temporaneamente le chiavi dello Stato italiano ed ha il dovere di prendere le decisioni.
Eppure – mi sia consentito – non ho mai assistito ad un attacco così multiforme come quello che nelle ultime settimane ha investito l’esecutivo Conte.
Martellante nei contenuti, trasversale nella composizione, talvolta persino volgare nei toni. È una constatazione banale, non è figlia di un mega complotto dei poteri forti, ma di una precisa lotta per equilibri politici e sociali diversi nel nostro paese.
La strategia del lockdown sembra produrre una inedita rivolta delle élite che usano la sofferenza popolare come alibi per una ripartenza rischiosa e per chiedere ancora una volta tutto allo Stato senza dare in cambio nulla.
Già perché questo Governo che ha dovuto fare i conti con un evento del tutto inedito nella storia recente dell’umanità, una pandemia globale che ha travolto certezze economiche e rigettato nella paura e nel dolore milioni di persone, non viene considerare adatto a gestire la cosiddetta fase 2.
Puzza troppo di sinistra. Puzza troppo di dialogo con i sindacati, dopo anni di disintermediazione forzata. Puzza troppo di autonomia dall’attuale configurazione della leadership europea, dopo anni di cieca subalternità ai dettami dell’austerity. Il senso dello scontro sta tutto qui.
Non è un mistero che il fatto che a gestire la mole di danari pubblici che saranno mobilitati nella ricostruzione (ancora tutti da misurare, a partire dall’entità del recovery fund) possa essere una maggioranza siffatta, che va dal centrosinistra ai Cinque Stelle, tolga il sonno a qualcuno.
Alla Confindustria innanzitutto, che è tornata a battere cassa senza offrire in cambio nulla: soldi a fondo perduto, ma nessun vincolo occupazionale, nessun divieto di delocalizzazione, nessun impegno a reinvestire.
A chi sta ridisegnando il panorama editoriale italiano, troppo impegnato a ribadire scontate fedeltà atlantiste e a recuperare discutibili toni da guerra fredda, come se la geopolitica della pandemia ci consegnasse schemi classici e immodificabili, manco avessimo i cosacchi sulle rive del Tevere.
A chi persino dentro la Chiesa sta battendo la strada al superamento del magistero bergogliano, reo evidentemente di pensare più agli effetti sociali della pandemia che a quelli sulle anime.
Di Renzi è inutile parlare, è semplicemente la testa di ariete di un film di cui difficilmente scriverà la sceneggiatura.
Ha fatto discutere molto un appello promosso da alcuni intellettuali della sinistra su Il manifesto, che difendeva le scelte di Giuseppe Conte e metteva in guardia rispetto a una sua defenestrazione, ribattendo anche alle critiche sui pieni poteri e sull’abuso dei Dpcm avanzate da vari costituzionalisti e da parti non irrilevanti della maggioranza. Per chi si sente progressista, qualsiasi altro governo significa destra: questo in soldoni il senso dell’appello. E, se a governare lo stato di emergenza fosse stato Salvini, non sta scritto da nessuna parte che non saremmo scivolati in uno scenario alla Orban, con annessa messa in mora dell’opposizione e ridimensionamento della libera stampa.
Condivido lo spirito e il contenuto di quel documento.
Rompe finalmente una strategia di isolamento che stava diventando preoccupante. Tuttavia, se vogliamo difendere questa esperienza di governo, avverto l’urgenza di fare i conti con qualcosa di più della semplice difesa di quello che c’è. Questa maggioranza nasce da due esigenze: evitare alla Lega un irresistibile “All In” sulle spoglie residue della democrazia italiana e disegnare un nuovo equilibrio tra le forze progressiste e un pezzo di populismo antiestablishment che aveva saccheggiato l’elettorato di sinistra nell’ultimo decennio. Un’operazione politicamente poderosa e inedita nella storia repubblicana e persino in Europa.
I Cinque Stelle non sono né Syriza né Podemos, non hanno radici nella storia del movimento operaio continentale, non hanno un’elaborazione teorica ascrivibile alla dottrina socialista né una connotazione di classe. Hanno rappresentato, nella fase ascendente della loro parabola politica, un sentimento che ha attraversato generazioni, classi, territori con l’obiettivo di spazzare via quello che c’era stato prima. Piazza pulita di storie politiche, di riferimenti sociali, di codici culturali. Un voto di vendetta che si è saldato con la destra della paura e dell’isolamento anti europeista, producendo un mix pericoloso sul piano democratico e costituzionale. Aver rotto la saldatura tra populismo antiestablishment e sovranismo nazionalista è stata un’operazione giusta, anche se tardiva.
Ma di fronte a un panorama drammatico come quello che segnerà l’Occidente nel tempo della pandemia è evidente che non ce la caviamo solo con il pallottoliere in Parlamento.
Serve un progetto. Serve passare – meglio ancora – dalla resistenza al progetto. Significa delineare un’idea di economia sostenibile che metta al centro la qualità della produzione come carta per far reggere un sistema paese che si è trovato nudo davanti all’emergenza, significa orientare gli investimenti, non farsi orientare dai giochi della finanza. Significa pensare a una rifondazione dello Stato, evitando la babele di ordinanze e l’insopportabile peso burocratico di policentrismi à la carte, ma rilanciando la centralità di alcuni beni pubblici non negoziabili, a partire dal diritto alla salute.
Significa restituire centralità al lavoro, redistribuirne l’orario, riconoscergli nuovi diritti dopo la lunga stagione della precarietà e della concorrenza al ribasso.
Il progetto non può limitarsi al dibattito su quanto distanziamento saremo in grado di garantire sulle metropolitane e sulle spiagge, se occorre il plexiglas nei ristoranti e la mascherina in strada. Questo va lasciato alla scienza.
Sono scelte decisive, ma riguardano la gestione efficiente di una lunga fase di emergenza dove gli italiani hanno dimostrato un civismo senza precedenti ed una capacità di obbedire alle regole che fa strame di decenni di luoghi comuni.
Il Governo Conte si rilancia se mette il naso fuori dalla contingenza, se trasforma l’emergenza in una strategia, se si mette in sintonia con la nuova domanda di protezione, di intervento pubblico, di equilibrio ecosostenibile che sta crescendo nelle società occidentali al tempo del Covid. Se non ci attrezziamo per rispondere a queste domande, la destra arriverà naturaliter, non perché abbia meritato la fiducia degli italiani. E la domanda di protezione si trasformerà in ossessione per il controllo, la richiesta di stato in voglia di nazione, l’esigenza di un vincolo ambientale in una nuova e pericolosa guerra strisciante per le risorse.