Scotto: cara sinistra, vai dove si muovono le cose del futuro

Politica e Primo piano

Pubblicato su Huffington Post

di Arturo Scotto

Chi immaginava che il governo Draghi avrebbe inaugurato un anno di sciopero della politica si è dovuto rapidamente ricredere.

Tutto è in movimento.

Il nuovo quadro politico ha portato all’estremo una crisi che era evidente già prima e che forse è stato il vero punto di debolezza dell’esperienza dell’esecutivo giallorosso: la fragilità delle forze politiche che lo sostenevano, le contraddizioni irrisolte di progetti in transizione permanente, senza un baricentro culturale e senza una precisa identità sociale.

I Cinque stelle che alla prova del potere non sono stati risparmiati dal fascino del governismo a tutti i costi, piegando parte delle ragioni originarie a una pura sequenza di slogan sempre più indigeribili persino dalla loro base.

Questa mutazione ha prodotto tuttavia un beneficio oggettivo per il Paese, ha stabilizzato una legislatura che rischiava di accartocciarsi, ha portato una  parte del “voto di vendetta” che aveva raccolto nel 2018 sul terreno della democrazia parlamentare. Un’operazione di primissimo piano, tutt’altro che scontata, che ha generato una maturazione effettiva del Movimento e, prospetticamente, una collocazione stabile nello schieramento democratico e progressista.

Il Pd che ha dovuto fare i conti con l’esaurimento della spinta propulsiva del renzismo, abbandonando la sindrome dell’autosufficienza e provando a fare i conti con le ragioni di una sconfitta storica.

La segreteria Zingaretti ha rappresentato un’allusione a un possibile sbocco a sinistra di un partito che dalle origini si era presentato come un asso pigliatutto, dietro l’assunto ideologico di una vocazione maggioritaria che si era trasformata in una continua corsa alla conquista del centro e dei moderati.

Centro e moderati che la crisi ha spazzato via, radicalizzando il conflitto politico e sociale, facendo emergere in tutta Europa punti di vista antisistemici capaci di interpretare la domanda di protezione sociale che il compromesso socialdemocratico aveva abbandonato per strada.

Le dimissioni del segretario hanno prodotto oggettivamente una scossa nel sistema politico, ancora alle prese con l’assestamento di un quadro nuovo di unità nazionale, per quanto la dimensione della denuncia etica della crisi del Pd avesse prevalso sulle ragioni di un’indagine approfondita sui limiti oggettivi di un involucro che si è formato negli anni dell’adesione acritica della terza via.

Leu ha pagato la sua rinuncia a diventare un progetto compiuto. Nel 2018 è andata al di sotto delle aspettative, ma quel milione e duecentomila voti furono un mezzo miracolo davanti all’esplosione dei Cinque Stelle che, soprattutto al Sud, intercettavano le praterie lasciate libere dal centrosinistra di governo.

Insegnanti, giovani, operai, disoccupati avevano letto nel duplice appello alla lotta ai privilegi e al contrasto alle povertà crescenti una scommessa su cui investire: il renzismo si batte col mare grande, non con una prospettiva limitata appena appena abbozzata. Questo fu il senso di quel voto, capace di raccogliere dal cosiddetto “bosco” molto di più dei legittimi eredi della grande tradizione della sinistra democratica. La difficoltà a intercettare spinte dal basso che pure c’erano nella società italiana attorno alla sfida dei beni comuni e della lotta alla precarietà del lavoro ha fatto il resto.

Ce lo dimostra infatti l’esplosione successiva di movimenti come le sardine o Fridays for future oppure le reti che si organizzano attorno al lavoro intermittente delle piattaforme digitali. Non siamo riusciti a individuare un core business, a radicare sul territorio una forza organizzata, a far emergere una novità dalla sofferenza del lavoro e dei ceti medi: eppure abbiamo dato una piccola rappresentanza a un pezzo di società che avrebbe scelto il rifugio dell’astensionismo o dell’estremismo. Non abbiamo rubato voti al Pd, abbiamo trattenuto quello che difficilmente sarebbe tornato a casa.

Questo non è bastato, era comunque troppo poco: al bivio ci siamo schiantati come tante altre esperienze nate fuori dal grande albero del Pd. Troppo grande la contraddizione tra chi privilegiava la faticosa ricostruzione di uno spazio largo di centrosinistra rinnovato e chi invece coltivava – compiendo a mio avviso un errore politico già ripetuto in passato – l’idea pur legittima dell’irreversibilità di una separazione tra le sinistre. Lo si è visto chiaramente anche in questo passaggio del governo Draghi, semmai ci fosse bisogno di una conferma.

Italia viva, Calenda e centrismi vari stazionano in attesa di un segnale dal capo dei narcisisti italiani. Quello che non sono mai riusciti a imitare, nemmeno quando erano alla guida di organizzazione ben più solide e si candidavano a rappresentare lo spazio del partito della nazione.

Quel centro significa destra, berlusconismo rimasticato, accettazione piena e totale del mercato senza regole, visione acritica del processo europeo, reclutamento di trasformismi indicibili sul territorio, subalternità a qualsiasi moda culturale basta che sia racchiusa in uno spazio grande quanto un tweet.

Inutile aggiungere, nella declinazione renziana, l’acritica adesione alla tesi secondo cui i soldi non hanno colore – e non puzzano nemmeno – anche quando traggono origine da monarchie sanguinarie.

Dunque, il campo progressista oggi è una somma di macerie, sbaragliato perché fuori dal governo effettivo dei processi su cui si è innescato il pilota automatico del milieu draghiano, condannato alla damnatio memoriae se non riesce a prendere le misure di questa fase di convivenza tra la dimensione politica e il bastone dei tecnici.

Dunque, più che mai torna la parola d’ordine di una ricostruzione profonda delle casematte nel quale ciascuno è accampato.

Nessuno è autosufficiente, nessuno appare capace da solo di interpretare la portata della novità che la pandemia ha introdotto nelle pieghe delle società occidentali, accelerando processi di indebolimento e di frantumazione del lavoro e, dunque, del perno su cui non può non fare leva una qualsiasi forma di vita a sinistra.

Proviamo a ragionare per ordine sulle novità e sui possibili sbocchi della crisi politica del nostro campo, senza fare sconti a noi stessi e senza tabù nei confronti di altri.

1) La defenestrazione di Conte è apparsa ingenerosa e inutilmente violenta a larghi strati di popolazione, nonostante una campagna martellante della stampa e dei media mainstream. Qualsiasi leader tradizionale ne sarebbe uscito fortemente ridimensionato. Eppure – se valgono qualcosa – i sondaggi, ma anche la diffusa percezione pubblica, lo descrivono come ancora fortemente popolare, vittima di una manovra di palazzo che ha seminato diffidenze e rimpianti, disappunto e rabbia. Questi sentimenti se non trovano un’immediata risposta politica finiranno nel distacco profondo da qualsiasi soggetto organizzato se non addirittura nella rassegnazione all’impotenza della politica, intrappolata nello schema stabilizzatore dell’esperimento Draghi.

2) La proposta avanzata da Beppe Grillo a Giuseppe Conte di mettersi a capo di una rifondazione del M5S è una novità figlia anche della timidezza e delle contraddizioni del centrosinistra. Sono il naturale sbocco di un processo coalizionale che non si è ancora compiuto. Francamente avrei provato a scommettere su una sua terzietà rispetto all’attuale assetto delle forze politiche nella galassia giallorossa e puntare tutto sull’Alleanza dello Sviluppo sostenibile come sbocco possibile di un nuovo motore progressista. D’altra parte, è molto probabile che si vada a votare con questa legge elettorale – l’ultimo colpo di coda maleodorante del predominio renziano della scorsa legislatura – che prevede lo spazio delle coalizioni, anche se in maniera spuria e senza l’indicazione del leader dello schieramento. Il valore aggiunto di Conte sull’intera coalizione avrebbe evitato eventuali travasi elettorali tra alleati ed avrebbe persino prodotto uno scatto potenziale nei collegi uninominali, provando a fare il pieno di una larga fascia di elettorato civico e senza rappresentanza politica, in particolare nel Sud dove lo sfrangiamento dei corpi intermedi è più visibile. Persino nel tempo dell’Ulivo questo fu vero e portò risultati significativi.

3) Cosa saranno i Cinque Stelle rifondati attorno alla leadership di Giuseppe Conte? Attorno a quali assi culturali, programmatici, identitari rimetteranno in cammino un’esperienza politica inedita in tutto il mondo occidentale? Se scelgono la collocazione a sinistra in maniera definitiva questo diventa un fatto politico di valore sistemico. Abbandonano la presunzione – tipica di tutti i populismi moderni – di candidarsi a rappresentare “il popolo” in quanto tale, ma decidono invece di rappresentare “un popolo”, una parte, un campo di valori precisi. Non è una distinzione politologica, è l’essenza di tutte le società moderne che si fondano sulla dialettica tra culture politiche e interessi economici. Questa maturazione ci impone di guardare fino in fondo dentro la svolta impressa da Conte, senza avere l’arroganza tipica di chi rappresenta l’espressione di una nobiltà decaduta, ovvero la sinistra del Novecento. Si parla di partito della transizione ecologica e digitale, si parla di sostenibilità e uguaglianza sociale, si parla di adesione – seppure in via parlamentare – al gruppo dei socialisti e democratici europei. Quando Beppe Grillo accenna all’orizzonte del 2050, la traiettoria storica di un pianeta che si salva o meno dalla prepotenza dei cambiamenti climatici, delinea la necessità della costruzione di un blocco sociale e produttivo fondato sulla desiderabilità della transizione ecologica. Significa cosa produrre, come produrre, per chi produrre. Significa non lasciare indietro nessuno. Sono domande che poco hanno a che fare con una prospettiva liberale e moderata da un lato e con le suggestioni della decrescita felice dall’altro, come emerge anche dalla lectio magistralis dell’ex presidente del Consiglio a Firenze di qualche settimana fa. Dunque, chi afferma che queste novità sono soltanto il frutto di un posizionamento leaderistico o di un maquillage elettorale secondo me compie un errore.

4) La ristrutturazione dei Cinque Stelle – o di quello che sarà – accelera inevitabilmente l’emersione di un dibattito definitivo anche nel campo del centrosinistra, a partire dal Pd. Inutile sottolineare che la discussione di quel partito ci interessa e va rispettata anche davanti a ragionamenti molto spesso difficilmente comprensibili. Il Pd è nato nel 2007 dalla fusione di due dei principali partiti fondatori dell’Ulivo, la coalizione che aveva consentito a metà degli anni ’90 alla sinistra di accedere per la prima volta al governo del paese per via elettorale. Quella scelta non la condivisi allora, insieme al vecchio correntone dei Democratici di Sinistra guidato da Fabio Mussi, perché ne contestavo la natura disomogenea sul piano culturale e un’analisi sbagliata dello sviluppo capitalistico in occidente dove l’interconnessione globale della produzione di merci restituiva molto ai paesi terzi ma apriva un problema gigantesco in termini di salari, protezione sociale, qualità del lavoro ai ceti medi e alle classi lavoratrici di questa parte di mondo. Veltroni ebbe a dire nella campagna elettorale del 2008 che l’Italia doveva prepararsi a un nuovo boom economico e che la sfida con la destra si giocava sul terreno – neutrale socialmente – dell’affidabilità delle classi dirigenti del paese nel gestire la nuova fase espansiva. Pochi mesi e iniziò la crisi dei mutui subprime e il mondo – Europa compresa – precipitò nella recessione più buia dell’ultimo secolo. Non vedere quel terremoto che avrebbe aperto il vaso di Pandora di malesseri profondi che covavano sotto le ceneri di società divise fu il vizio d’origine, il difetto di nascita che produsse successivamente lo sfondamento del renzismo. Non lo vide per la verità nemmeno la sinistra cosiddetta radicale, incapace di mettere in campo progetti duraturi e di costruire legami politici solidi con i suoi riferimenti sociali naturali. Penso alla Cgil e non solo.

5) Zingaretti arriva alla guida del Pd dopo che i pozzi sono stati abbondantemente avvelenati. Va detta la verità: non c’è riforma della sinistra italiana senza una analisi delle trasformazioni di questi anni, sul perché una larga parte della società si è affidata alle sirene che comodamente e frettolosamente abbiamo definito populiste. Populismo che, tra l’altro, è entrato direttamente in casa quando si è teorizzata una sinistra depurata dal peso dei corpi intermedi, una politica che segue l’opinione pubblica anziché provare a indirizzarla, l’elogio del nuovismo come unica strada per sbloccare il sistema. Queste hanno conquistato il cuore di un pezzo di elettorato, non sono state frutto di un furto politico o di un golpe burocratico. Sarebbe stata necessaria una rifondazione più forte: se è vero che siamo davanti a un cambio di stagione che riapre il nodo di un nuovo compromesso con il capitalismo finanziario dopo la battuta d’arresto del modello sociale europeo, serviva mettere le ali e non volare a bassa quota. Non è accaduto e questo è un fatto oggettivo.

Tuttavia, l’uscita di Nicola Zingaretti rappresenta un problema per tutto il campo, un arretramento simbolico che fa il paio con la sconfitta del governo Conte. Guai a sottovalutarlo come se fosse un passaggio di testimone ordinario. Quel “mi vergogno” resterà a lungo nella testa delle persone.

6) La trappola del centrismo ha prevalso anche rispetto a generosi tentativi di innovazione a partire dalle alleanze: quella coalizione Pd Cinque Stelle e Leu era ed è un tentativo di uscire dalla fotografia di un blocco sociale invecchiato, prevalentemente legato a pensionati, a pubblico impiego, borghesia delle professioni e alla parte più tutelata del paese. Riemergeva la necessità di recuperare la frattura atavica tra centri urbani e aree interne, tra nord e sud, tra inclusi ed esclusi. Questa intuizione ha faticato a diventare un progetto di società, a varcare le colonne d’Ercole della contingente sommatoria del ceto politico, a superare interventi sociali ed economici parziali e intermittenti, a diventare una forza d’urto contro le rendite di posizione e i monopoli, a promuovere una riforma complessiva dello Stato e dei suoi mandarinati. Il Recovery ne è stato il detonatore, perché è immediatamente emerso con chiarezza il livello di scontro in atto: chi gestiva i soldi aveva le chiavi del futuro di un pezzo di paese, al netto del consenso e della dinamica democratica. I primi passi del governo Draghi – in cui le forze giallorosse hanno fatto bene a entrare, innanzitutto per presidiare un territorio che sarebbe rimasto scoperto socialmente – ci parlano di uno spostamento oggettivo del cervello politico delle funzioni amministrative verso i centri di formazione del sapere e delle competenze del nord del paese, con ramificazioni precise nei mondi imprenditoriali sempre più sottratti al controllo e alla direzione della politica. Il capitalismo delle consulenze interviene laddove lo Stato non riesce più a indirizzare la programmazione, si avvale di esperti capaci leggere le carte e persino riscriverle, surroga la debolezza della funzione pubblica con un occhio al portafoglio clienti. Qui sta il punto, la neutralità dei processi economici, della leva fiscale e della transizione produttiva. Quando c’è il pilota automatico all’opera si riduce lo spazio della partecipazione pubblica alle scelte, si determina un affidamento passivo rispetto alle scelte di fonde dei Governi, espellendo quel poco di popolo che c’è. Lo scacco definitivo dei ceti dominanti, la certificazione che provare ad ascoltare anche “chi non conta nulla” è un lusso che da questa parte di occidente non possiamo permetterci. Mi viene da dire, parlando della realtà che conosco meglio, la città di Napoli, che chi prende il 65% dei voti a Ponticelli non può pesare più di chi prende il 20% dei voti a Posillipo. È una cosa che per una parte di paese viene ritenuta intollerabile. I sussidi vanno bene se sostengono le imprese, non se alleviano la sofferenza delle classi subalterne.

7) Mi ha molto fatto riflettere in questi giorni l’insistenza sulla stretta atlantista ed europeista dell’Italia, come se per un certo periodo di tempo il nostro paese fosse finito fuori asse. Non penso che il tema della collocazione geopolitica dell’Italia possa essere liquidato in poche parole, ma ho l’impressione che stiamo guardando molto la superficie e poco i fatti. Non c’è dubbio che la destra sovranista e i grillini abbiano giocato molto con l’ambiguità in questi ultimi anni, ha promosso campagne antieuro, interpretato un sentimento crescente di allergia alle istituzioni di Bruxelles, civettato con “democrature” come quella di Putin che hanno via via recuperato centralità sullo scacchiere internazionale. Fu ingenuo liquidare ai tempi di Obama la Russia come una media potenza regionale, fu sbagliato contemplare l’allargamento dell’Ue ad est in sovrapposizione con l’estensione della Nato: una scelta che produsse inevitabilmente una reazione ostile da parte del Cremlino, una moltiplicazione delle ingerenze, una strategia di sostegno ai nemici di un’Europa ancora troppo fragile sul piano politico ed istituzionale. Quel disegno reazionario miete consenso sulla debolezza di un’identità comune europea – assenza di miti fondativi, l’evanescenza di luoghi simbolici, l’affievolimento della memoria delle due grandi guerre – ma anche su una paura crescente delle società europee rispetto alla crescita di un Islam politico sempre più penetrante tra i migranti di terza o quarta generazione che hanno visto bloccarsi l’ascensore sociale e che hanno visto lacerarsi progressivamente le mappe di ingresso nel circuito comunitario. La destra è divampata a causa della mancata chiusura di questa faglia, originata dalle contraddizioni di un modello di welfare sempre meno inclusivo. Il compito della sinistra non dovrebbe essere solo quello di ricucire quelle ferite, ma di offrire una via d’uscita più ampia a uno smarrimento che interviene anche nella sfera della dimensione privata, della condizione di cittadino, di consumatore, di lavoratore. Di qui il provincialismo della discussione sulla collocazione italiana sul terreno geopolitico: si stenta a comprendere che in questa fase storica l’agitazione stativa del concetto di Occidente – astraendolo dal divorzio tra liberalismo e capitalismo – non riscuote più né il monopolio dei sentimenti né quello dell’innovazione. Si tende a riesumare un armamentario da guerra fredda che non fa i conti con la realtà. Detto questo, credo sia panna montata la descrizione di un governo Conte estraneo alle alleanze tradizionali del Paese o succedaneo di un trumpismo che in Italia ha avuto ben altri epigoni. Piuttosto stupisce il “neocampismo” delle classi dirigenti liberali di questo paese quando con ogni evidenza – ed in piena continuità con le amministrazioni americane degli ultimi dieci anni almeno – gli Usa coltivano l’inevitabile ambizione di dare priorità alle urgenze della politica interna, già profondamente provata da lacerazioni economiche e persino razziali riemergenti. E che, in ogni caso, continuano a guardare all’Europa come alleato naturale, ma sempre più con la testa inclinata verso le sfide dell’Asia e la nuova stagione di deterrenza che si sta – ahimè – riaprendo. Quello che manca è un punto di vista autonomo dei progressisti, che dentro la battaglia globale contro il riemergere degli etnonazionalismi, riescano a imporre un’agenda capace di affrontare la grande sfida di oggi in chiave multilaterale che resta la riforma della finanza che si mangia la produzione, il lavoro e dunque la democrazia.

8) Insomma, pensare di affrontare la prepotenza del passaggio storico con l’armamentario attuale significa giocare a poker con le carte napoletane. Anche noi, che siamo fuori dai grandi partiti del campo progressista, non possiamo attraversare questo passaggio pensando a forme di testimonianza o a soluzioni settarie. Se la pandemia cambia tutto, occorre uscire dalle gabbie e dagli orticelli e mettersi in cammino. Non ho mai condiviso l’idea dell’autosufficienza maggioritaria, sarebbe ridicolo immaginarlo persino in una chiave minoritaria. Non è un caso che abbiamo insistito – e insistiamo tuttora – per la costruzione di un fatto politico nuovo a sinistra, che non significa unità di quello che già c’è ovvero la ricomposizione degli spezzoni delle varie scissioni, ma anche e soprattutto dentro la chiusura della parabola liberale di questo ventennio. Diciamocela tutta, c’è una generazione tra i 25 e i 45 anni che è sbalzata fuori dalla dinamica democratica perché è quella che più di tutti si è trovata sola davanti alla destrutturazione del mercato del lavoro, alla rivoluzione dell’algoritmo, alla delocalizzazione di intere aree di produzione. In quel territorio non rientri se non offri un’idea di società e di stato compiuta, che riporti la parola protezione a sinistra, che abbia una radice forte nella centralità del lavoro come strumento essenziale della cittadinanza. La pandemia ha fatto imparare a tutti qualcosa di nuovo, a nuotare in un mare sconosciuto, rivedendo tante certezze e proponendo ricette inevitabilmente dirompenti. Ci ha detto anche che i beni comuni sono tornati al centro del dibattito pubblico, che c’è qualcosa di cui il mercato non può disporre. Lo vediamo, d’altra parte, in questa partita internazionale sui brevetti, dove lo scontro con le Big Pharma ci parla ancora una volta della necessità di una politica che si riappropri del bastone del comando, perché la vita vale più delle oscillazioni di borsa o delle remunerazioni degli azionisti.

9) La declinazione di una sinistra plurale e popolare passa dunque per la difesa dello spazio dell’intervento pubblico rispetto alle invadenze del mercato. La terza via è morta, nonostante gli inguaribili nostalgici di quella stagione imperversino sui mass media e si intruppino nei ministeri. D’altra parte, prima della destra politica arriva sempre la destra economica: questa è la cifra essenziale dell’esperimento in corso in Italia. Mettersi alla testa di un movimento per l’“Italia dei beni comuni” significa offrire al campo dei progressisti quel punto di rottura su cui si misura ancora il clivage oggi tra sinistra e destra, ma anche un’ambizione concreta a parlare a qualcosa di più dell’attuale elettorato. Io credo che questa sia la funzione che oggi la storia assegna ad una piccola forza come quella che è rappresentata da Articolo Uno. Dal governo, con Roberto Speranza impegnato in prima linea nella sfida più drammatica del secolo, abbiamo dimostrato che c’è la possibilità di fare egemonia, di anteporre agli spiriti animali dell’economia il diritto inalienabile alla salute. Che davanti alla pandemia il profitto non può venire prima della tutela della comunità civile, costi quel che costi. O, se vogliamo stare sulla letteratura dominante, whatever it takes. Era da anni che la sinistra non rientrava in sintonia con un sentimento largo, con le ansie e le aspettative di milioni di persone, nonostante sia stata chiamata ad assumere decisioni pesantissime sul rapporto tra libertà individuale e vita collettiva. Significa che nel profondo del nostro Paese sopravvivono riserve di valori che, a differenza anche di altri paesi occidentali, ci fanno pensare che c’è la possibilità di un nuovo modello di sviluppo e di convivenza fondato sulla solidarietà e su un insopprimibile bisogno di uguaglianza. La funzione storica della sinistra è quella di farne da levatrice, di risvegliare una dimensione cooperativa che si è addormentata nel lungo processo di transizione della nazione. Abbiamo subito una rivoluzione passiva che ha azzerato i luoghi della formazione di una coscienza collettiva, subappaltando la funzione pedagogica della politica ad agenzie esterne, portatrici di interessi editoriali – e dunque economici – incompatibili con una direzione progressiva della democrazia. Ci vorranno anni per ricostruirli, ma la pandemia ci restituisce la volontà prevalente del popolo italiano di sentirsi parte di un destino collettivo. E dunque ci regala un terreno da arare, una condizione inedita in cui investire con coraggio e determinazione. Basta saper ascoltare e decidere di andare laddove si muovono le cose del futuro.