di Alfonso Raimo
“Basta armi, il Pd scelga la pace”. A un anno dall’inizio del conflitto arriva il via libera del governo tedesco alla consegna di carri armati Leopard all’Ucraina. Arturo Scotto, coordinatore di Articolo Uno, il partito fondato da Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema che ha appena aderito al percorso costituente dei Democratici, con altri compagni di partito non ha votato il decreto che autorizza anche per il 2023 l’invio di armi italiane a Kiev. All’HuffPost spiega che non si tratta di una questione di coscienza, ma di una posizione schiettamente politica.
“Siamo a una svolta molto pericolosa nel conflitto. A questo punto chiediamo al Parlamento, e al Pd in primis, di dire ‘basta armi’ e adottare una convinta politica per la pace”, dice “Sappiamo che nel corso di questo conflitto tante sono state le svolte annunciate per giustificare ulteriori invii di armi sempre più potenti e sempre più al confine tra la difesa e l’offesa. A marzo il razzo anticarro Javelin, a giugno il lanciarazzi Himars che poteva colpire fino a un raggio di 80 km, poi a dicembre i Patriot con una gittata oltre gli 80 km. Oggi si dibatte sui tank Leopard, piegando persino i malumori e le preoccupazioni della Germania. Domani di cosa parleremo? A ogni passaggio si descrive l’invio di un nuovo equipaggiamento più pesante come risolutivo”.
C’è il rischio di una escalation?
“L’equilibrio sul campo ci racconta solo il bollettino delle morti e delle distruzione di infrastrutture civili. Parafrasando Gramsci: un equilibrio costante di forze a prospettiva catastrofica. La domanda è: il prossimo giro cosa invieremo? E per quale obiettivo strategico? Puntiamo a ripristinare l’integrità dell’Ucraina prima o dopo il 2014? E il ritorno della Crimea nell’orbita di Kiev è sul tavolo? E Minsk la consideriamo definitivamente tramontata? E una nuova stagione di cooperazione e sicurezza comune tra est e ovest, una sorta di Helsinki II, ha ancora cittadinanza nella testa delle classi dirigenti europee? Di questo vorrei discutere, non di anatemi. E non penso sia una discussione neutrale. Altrimenti lo scivolamento verso la terza guerra mondiale – come vaticinano Emmanuel Todd e Lucio Caracciolo – è dietro l’angolo, invio di truppe di terra e armageddon nucleare compreso”.
Non avete votato il decreto per l’invio di armi in Ucraina. E’ un ‘non voto di coscienza’?
“No. Una posizione politica. Io penso che la pace sia una questione politica, non l’espressione di una particolare bontà d’animo. La guerra ha cambiato il mondo e soprattutto sta cambiando gli equilibri in Europa. Emerge una nuova Nato lungo l’asse Washington-Londra-Varsavia che schiaccia il nocciolo duro del vecchio continente, con il sodalizio franco-tedesco sempre più debole e periferico. Nel 2003 durante la guerra in Iraq il disegno di Ramstein fu esattamente questo: spezzare l’Europa e marginalizzando come attore geopolitico globale usando le alleanze con i nuovi paesi dell’est per aprire contraddizioni e per paralizzare qualsiasi avanzamento istituzionale. Tant’è che oggi parole come autonomia strategica nonché politica estera e di difesa comune sono totalmente svuotate di significato, rischiano di apparire rumori di fondo se non addirittura una cartolina ingiallita di qualche vertice tra capi di governo invecchiato troppo rapidamente. Questo è l’effetto di una diserzione della politica che ha appaltato tutte le scelte a una vera o presunta scientificità della dottrina militare. Con i generali – per la verità – che sono molto ma molto più prudenti di certi neofiti della guerra che ogni giorno pontificano nei talk”.
Nel Pd è valsa finora la linea: non mandare le armi a Kiev significa condannarla a sparire. Per voi non è cosi’?
“Credo si debba fare un bilancio onesto dopo 11 mesi. Si è detto: aiutiamo l’Ucraina a resistere per agevolare un negoziato alla pari. Giusto, ma purtroppo non c’è nessun tavolo aperto, gli effetti della guerra sul piano umanitario ed economico sono terribili e non si vede alcuno spiraglio all’orizzonte. Al contrario emerge un’inquietante assuefazione verso l’inevitabilità della guerra anche nelle opinioni pubbliche europee, che chiedono una svolta diplomatica – anche perché gli effetti sull’economia picchiano su un ceto medio disarmato davanti alla crisi economica – e invece trovano solo il dibattito sulle armi. Quando sul campo resta solo lo strumento militare fa breccia prevalentemente il vocabolario della destra nazionalista. Perché nazionalismo e guerra sono parenti stretti da sempre”.
Per la prima volta fate valere nel Pd una posizione politica che dice: basta armi. Non voterete più il decreto di autorizzazione? Ad oggi, la vostra posizione non pare compatibile con quella del partito?
“Un nuovo Partito Democratico – o quello che diventerà – contempla inevitabilmente diverse culture politiche e diverse sensibilità. Io non ho avvertito disagio nel sostenere una posizione di minoranza in questo passaggio. Mi batto con determinazione perché le cose che dico oggi possano diventare maggioranza domani, provando a entrare in sintonia con quel popolo della pace che il 5 novembre scorso chiedeva una postura più assertiva dell’Italia sul piano diplomatico e il bando delle armi nucleari. E la cui rappresentanza non va delegata ad altri. Vede, io credo che la sinistra italiana abbia un debito verso le alleanze internazionali classiche da onorare e da difendere. Io sono per stare con tutti e due piedi nella Nato. Detto questo, siamo sicuri che stiamo gettando le basi di un nuovo multilateralismo? Ci rendiamo conto che per tanti popoli del mondo l’Occidente viene visto come il campione del relativismo etico che evoca diritti umani e democrazia a geometria variabile? Come parliamo a tre quarti del globo che si rifiutano di condannare la gravissima violazione del diritto internazionale perpetrata da Putin il 24 febbraio dello scorso anno? Avere un punto di vista autonomo sul nuovo disordine mondiale è urgente e necessario”.
Anche Elly Schlein, la candidata che sostenete al congresso, è schierata per l’invio di armi. Sbaglia?
“Stimo Elly, mi pare abbia detto con forza che ora è il momento della diplomazia. In questo passaggio il nostro voto è stato diverso, mi auguro che col passare dei mesi emergerà con più forza un punto di vista che contempli anche le ragioni mie e di altri. Dopodiché le mie riflessioni sul decreto Ucraina non hanno nulla a che spartire con un posizionamento congressuale, ma sono figlie di una precisa convinzione politica maturata nel tempo che ho segnalato in questi mesi, anche in campagna elettorale”.
La vostra posizione ‘una politica per la pace’ quali sviluppi operativi può avere? Pensate a un intergruppo con le altre forze – M5s, Verdi, Sinistra – che sono contrarie all’invio?
“Non penso a precipitazioni operative. Questa materia non è da intergruppo, non scherziamo. Quello che mi sfugge è per quale motivo il Parlamento durante una guerra non difenda le proprie prerogative con più determinazione. Invece si limita a farsi chiamare solo in quanto ratificatore delle decisioni dell’esecutivo. E questa è la conferma che quando parlano solo le armi, la democrazia va in debito d’ossigeno. Io lavoro perché tutto il campo progressista, oggi collocato all’opposizione, arrivi a maturare una linea diversa con un protagonismo parlamentare più evidente”.