Pubblicato su Il Fatto quotidiano
di Arturo Scotto
A un anno dall’invasione russa in Ucraina la politica si è assentata dalla scena e ha passato la mano alla semplice dimensione militare. Vedi vertice di Ramstein.
La politica per me si chiama Europa, unica potenza globale che non ha interesse a prolungare questa carneficina. Con due piedi nella Nato, ma con una politica estera e di sicurezza comune propria: si chiama autonomia strategica. L’Ue doveva aiutare l’Ucraina a restare in piedi: ma prendere parte non significava limitarsi a essere parte passiva dello scontro.
Oggi non si intravede nemmeno l’ombra di un’agenda diplomatica: resta solo il via libera a un’ulteriore escalation di armamenti. Armi per salvare la democrazia: questa la parola d’ordine indiscutibile. Ma una democrazia armata fino ai denti è un ossimoro.
Arriva l’ennesimo decreto che per un anno destinerà all’Ucraina altre risorse militari, con il Parlamento a ratificare. E senza uno straccio di road map politica se non l’allusione mobilitante alla necessità di vincere la guerra. Vincere la guerra contro una potenza nucleare significa mettere nel conto l’armageddon.
Chiunque avanza un dubbio passa per collaborazionista o imbelle, compreso quel popolo della pace che ha sfilato a Roma per un ruolo più assertivo della diplomazia. Perché come ci hanno insegnato da bambini, anche la pace è una politica, non un vessillo morale.
Il regime di Putin si consolida nell’ordalia retorica dell’etnonazionalismo contro il nemico esterno. Solo un’iniziativa europea può smontare questo armamentario e costruire ponti con la società civile russa.
Non voterò il decreto perché la politica ha scelto di riposarsi affidandosi alla scorciatoia più deresponsabilizzante: quella militare. Il senso di responsabilità mi dice invece che bisogna riaprire il dibattito sul disarmo e della diplomazia per fermare la guerra.