Riconoscere il lavoro di cura. Una lezione da imparare dalla pandemia

Politica e Primo piano

Documento approvato dal Forum donne di Articolo Uno

 

• Prendersi cura è un’attività complessa, che richiede energia, tempo, risorse. Comprende la cura dei figli, l’accudimento degli anziani, tutto il lavoro domestico non retribuito ed invisibile, spesso appaltato alle donne straniere, un’attività di riproduzione sociale e di mantenimento dei legami sociali quasi totalmente sulle spalle delle donne. Si stima che le donne si occupino del 74% del lavoro di cura non retribuito e che la loro giornata di lavoro sia mediamente molto più lunga di quella maschile, mentre il contributo degli uomini è sostanzialmente rimasto invariato negli anni. Secondo i dati Istat più aggiornati, riferiti al periodo pre-pandemico, l’attuale ritmo di incremento del lavoro familiare quotidiano da parte degli uomini in coppia (un minuto e mezzo nell’ultimo decennio) e di riduzione da parte delle donne (circa due minuti) condurrebbe alla parità di genere nei tempi di lavoro familiare in sessantatré anni.

• Il lavoro di cura è una attività umana fondamentale, un bisogno collettivo ed un bene sociale, ma influisce negativamente sull’occupazione femminile e sulla qualità del lavoro, in particolare sulle dinamiche di carriera e sulla retribuzione. L’Istat certifica che nel 2019, 37.000 lavoratrici madri hanno lasciato il lavoro e che metà delle donne tra i 25 e 64 anni con figli non lavora. Dalla relazione annuale sulle dimissioni volontarie delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri dell’Ispettorato nazionale del lavoro per il 2019 emerge l’ennesima conferma di un fortissimo divario di genere: le dimissioni volontarie coinvolgono per il 73% le madri. La più ricorrente fra le motivazioni delle dimissioni/risoluzioni consensuali addotte da lavoratrici e lavoratori continua ad essere la difficoltà di conciliare l’occupazione lavorativa con le esigenze di cura dei figli, soprattutto in assenza di reti familiari di supporto.

• D’altra parte, il record negativo nelle nascite (4,5 per cento in meno rispetto allo scorso anno) è un altro segnale del problema, della crisi del lavoro, della mancanza di risorse, di reddito, di possibilità, della difficoltà per uomini e donne di conciliare i diversi tempi di vita in assenza di servizi adeguati e accessibili.

• Lo shock della pandemia ha ricordato alle donne e agli uomini la centralità della cura: cura delle relazioni, dei beni, del territorio. Ed ha messo in evidenza i punti di debolezza e le fragilità strutturali che nelle nostre società ne impediscono il dispiegarsi come paradigma di interesse generale.

• Del lavoro di cura fanno parte anche le attività che nella pandemia abbiamo riconosciuto come essenziali: quelle del sistema sanitario, dell’assistenza sociale, della scuola, senza le quali non si dà nessuna forma di organizzazione sociale e politica, nessuna cultura o economia. Eppure, si tratta di attività poco valorizzate, storicamente sottofinanziate, investite negli ultimi anni da processi di privatizzazione e di liberalizzazione che le hanno impoverite. Basti pensare a quanto è avvenuto durante l’emergenza sanitaria all’interno delle case di riposo per anziani, al deficit cronico di servizi per l’infanzia in particolare nella fascia di età 0-3 (gli asili nido sono pochi e costano molto: 24 posti ogni 100 bambini ed una enorme disparità territoriale), al tragico sottofinanziamento del settore sanitario, che si è tradotto in blocco degli investimenti, in liste d’attesa e aumento delle disparità territoriali, aumento della spesa privata per fare fronte ai bisogni di salute della popolazione che invecchia. Il sistema di protezione sociale attuale, modellato sul lavoro maschile, stabile, a tempo indeterminato, penalizza fortemente le donne e non è in grado di far fronte all’estrema frammentazione del mercato del lavoro attuale, ai rischi di shock straordinari come quello che abbiamo vissuto e neppure all’articolazione dei tempi e degli orari di lavoro.

• Non si tratta di fatti contingenti, episodici o marginali, ma del cuore e della natura del nostro ordine sociale.

• L’introduzione dell’assegno unico per i figli e il riordino del sistema delle prestazioni familiari recentemente approvato alla Camera è un fatto positivo perché segna una razionalizzazione di misure finora troppo disomogenee e disarticolate, ma non ci convince l’impianto complessivo del c.d. “Family Act” che continua ad essere segnato da un errore di fondo. Si prevedono sostegni monetari e detrazioni fiscali per le famiglie, ma manca un piano strategico e lungimirante rispetto a ciò di cui abbiamo più urgente bisogno: servizi strutturali, disegnati secondo una progettualità che incentivi le reti di welfare pubblico e che rispondano ad una domanda di cittadinanza attiva ed inclusiva.

• La decisione di costituire un fondo per la ripresa a livello europeo, il Recovery fund, segna un punto di svolta per l’Europa, che si riconosce finalmente come comunità politica: si pongono le basi per un rilancio del progetto europeo. Questo è il momento per costruire contenuti e progetti e usare le risorse a disposizione per attuare una vera e propria “riprogettazione della cura”, attraverso lo sviluppo di servizi in un’ottica di ciclo di vita. A tale scopo è necessario un salto culturale, basato sull’idea che le attività di riproduzione sociale costituiscono una questione politica e pubblica fondamentale, che non può essere demandata alla sfera privata. Oltre a promuovere una maggiore condivisione delle responsabilità familiari tra donne e uomini, superando la visione della conciliazione vita-lavoro quale problema prettamente femminile, è allora necessario ribadire con vigore il valore sociale e pubblico delle attività di cura.

• Durante la pandemia del Covid-19 è emersa con evidenza la necessità e l’urgenza di garantire la disponibilità di servizi universali: il carico addizionale associato al Covid-19 per la cura della famiglia e l’assistenza è ricaduto, ancora una volta, principalmente sulle donne, che sono state anche in prima fila nelle professioni più esposte al contagio, da quelle del settore sanitario, nei supermercati, nelle imprese di pulizie. • Oltre a garantire servizi universali, è indispensabile un impegno per migliorare le condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici: in una recente pubblicazione l’Ocse denuncia, ad esempio, la grave situazione del settore dell’assistenza a lungo termine, caratterizzato da pessime condizioni di lavoro (bassa paga, contratti precari, irregolarità, sfruttamento, alto stress fisico e psicologico) e da un basso livello di competenze degli occupati e delle occupate, che mette spesso a rischio anche la qualità dei servizi forniti.

• Tuttavia, un altro recente studio ha messo in luce la scarsa attenzione dedicata al settore della cura e al rischio di inasprimento dei divari di genere nei programmi che costituiscono il Recovery Plan e che dovrebbero guidare la ripresa nei Paesi europei, il cui focus privilegiato è la trasformazione digitale e la transizione ecologica. Nei programmi annunciati è infatti al momento del tutto assente una quantificazione delle risorse da investire nel settore della cura e per promuovere l’uguaglianza di genere, anche attraverso il sostegno dei settori maggiormente coinvolti dalla crisi e spesso caratterizzati da una forte presenza femminile. Le risorse europee sembrerebbero destinate unicamente a settori ad alta occupazione maschile (economia digitale, energia, agricoltura, costruzioni, trasporti) e non si tiene conto delle conseguenze di genere che potrebbero prodursi. Una ripresa economica di questo tipo andrebbe in contrasto con gli obiettivi contenuti nella Strategia europea per la parità di genere 2020-2025 pubblicata proprio pochi mesi fa.

• Noi chiediamo con forza che le risorse europee siano indirizzate verso i consumi sociali da uno stato stratega, innovatore e “imprenditore”, che intorno alla centralità del lavoro di cura delle persone, delle relazioni, dell’ambiente, ripensi, in modo coerente e integrato, l’insieme delle dinamiche produttive e sociali. Servono investimenti nei settori della scuola, della sanità e dell’assistenza che si sono rivelati cruciali nel corso della crisi Covid-19, diretti anche ad un miglioramento della qualità del lavoro e delle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici in tutti i settori della cura. Nel nostro paese c’è bisogno di riconoscere e redistribuire il lavoro di cura non retribuito, di costruire una vera rete di servizi per la non autosufficienza, di una integrazione strategica tra sistema sanitario e sociale, di adeguare i servizi per l’infanzia rendendo i nidi un servizio universale e accessibile a tutti, di sviluppare il sistema dei congedi parentali e le politiche di conciliazione e condivisione, di investire nelle politiche di contrasto della violenza sulle donne, lavorando sulla piena attuazione della Convenzione di Istanbul. Una tale evoluzione, necessariamente accompagnata da una maggiore condivisione delle responsabilità familiari tra donne e uomini, favorirebbe direttamente e indirettamente l’occupazione femminile. La nostra ambizione è che si affermi un altro concetto di sviluppo ed un mercato del lavoro a misura di donne e di uomini, che il lavoro gratuito entri nella contabilità nazionale e che sia riconosciuto come contributo alla ricchezza di tutti, che sia agevolato, valorizzato e redistribuito, che si riconosca il contributo di tante donne che si muovono nel mondo, entrano nelle nostre case, cercando la loro indipendenza e caricandosi della dipendenza degli altri. Si tratta di obiettivi per cui è necessario promuovere la valutazione dell’impatto di genere degli interventi programmati, rafforzare le attività di gender budgeting, favorire il gender mainstreaming in tutti gli ambiti, puntando anche al rafforzamento della presenza femminile nei ruoli di vertice della pubblica amministrazione, e raccogliendo dati sul tempo e sul valore del lavoro di cura, che deve essere riconosciuto anche a fini pensionistici.

• Nella pandemia è venuto alla luce il valore essenziale della cura e dell’interdipendenza, il legame inscindibile tra lavoro e vita. Intorno a questo legame bisogna ripensare le priorità collettive e progettare un cambiamento radicale delle relazioni, del lavoro, del modello sociale, per uomini e donne.