Povertà, diseguaglianze, guerre, cambiamenti climatici, rivoluzione tecnologica, migrazioni. Sono i titoli dell’agenda politica del nostro tempo. Problemi drammatici, questioni, opportunità che vanno affrontati a livello globale. Noi collochiamo nella dimensione europea l’altezza minima a cui affrontare la sfida. Europeismo, dunque, ma capace di recuperare la spinta evolutiva dei primi decenni dell’Unione e si lasci alle spalle l’esperienza regressiva degli ultimi anni. Un europeismo che rinnovi la tradizione e il sogno di un socialismo europeo e realizzi una svolta radicale rispetto alla fase neo-liberista che ha caratterizzato l’ultimo ventennio, riconciliando l’Europa con l’impianto avanzato della nostra Costituzione. Con l’obiettivo di creare un’economia mista che governi il capitalismo, metta al centro ruolo pubblico, occupazione e coesione sociale e avvii un processo di transizione che faccia dell’Europa lo spazio politico del progresso, della democrazia, della laicità e dell’eguaglianza.
1) Europa e socialismo
- Ciò è più difficile, ma ancor più necessario, in un contesto segnato dal riemergere di pericolose pulsioni nazionalistiche, che mirano a fare saltare il processo di integrazione europea. In questo senso le imminenti elezioni europee non sono un passaggio ordinario. La possibile alleanza che si potrebbe configurare tra il Partito popolare europeo e le forze della destra radicale punta a un’Europa debole, ostaggio di democrazie autoritarie. In nome delle sacre frontiere da difendere, della lotta contro il multiculturalismo, in lotta persino con le basi costitutive della società liberale: a questo progetto vanno contrapposte due istanze.
- La prima è la consapevolezza profonda delle ragioni della loro forza, che coincidono con le ragioni della nostra sconfitta. Il centro-sinistra mondiale, la socialdemocrazia che — in nome della terza via — ha governato una parte importante dell’Occidente nel passaggio storico tra la fine della guerra fredda e l’avvio della globalizzazione, sono stati subalterni all’ideologia liberista. La crisi dell’ultimo decennio, insieme all’intero ordine neo-liberista e ordo-liberista che l’ha causata e alle politiche d’austerità che l’hanno rinforzata, sono parte integrante del problema. Non esiste alcuna proposta socialista su scala europea che non debba fare i conti fino in fondo con questa verità.
- La seconda è l’insufficienza, per queste ragioni, di un europeismo retorico, della mera difesa dello status quo. La sinistra può battere il risorgente nazionalismo e tornare a dare una speranza a centinaia di milioni di persone soltanto riempiendo di contenuti radicali la propria proposta democratica e la propria idea di Europa. Soltanto dando risposte concrete che affrontino alla radice il tema della diseguaglianza, il problema principale del nostro tempo, del potere d’acquisto di salari e pensioni, della precarietà del lavoro e della disoccupazione. Da questo punto di vista la nostra Costituzione funge da guida anche per la costruzione di un nuovo processo democratico su scala europea e per ridefinire in profondità l’impianto delle politiche economiche.
2) Europa, assetti istituzionali e governance economica
- La prima questione riguarda gli assetti istituzionali. La crisi del 2007-08 e il rifluire della globalizzazione hanno mostrato chiaramente i limiti dellagovernance europea che con il trattato di Maastricht aveva accettato gli indirizzi liberal-liberisti, prevalenti nella gestione dell’economia mondiale dopo gli anni ’80 del secolo scorso, e introdotto la moneta unica integrata da regole decentrate e uniformi di gestione delle pubbliche finanze, nella convinzione che il processo di convergenza tra le diverse economie sarebbe continuato in un contesto di crescita generale ed equilibrio finanziario. I risultati sono stati deludenti: la crescita dopo l’introduzione dell’euro è risultata bassa (1,5% in media) e inferiore a quella degli Stati Uniti e a quella precedente dei singoli Paesi. Inoltre in presenza di un forte shock esogeno il sistema e i suoi meccanismi di governance non hanno retto. Gli esiti politici e sociali di questa insufficienza e incapacità sono evidenti.
- Tali meccanismi dovranno quindi essere modificati e aggiornati per tener conto della mutata situazione, riconoscendo che le esigenze e gli interessi dei Paesi della zona euro sono specifici e diversi da quelli degli altri membri dell’Unione. E’ necessario costruire un diverso sistema di governo per i due insiemi, soprattutto per quanto riguarda la gestione dell’economia. Oggi l’Eurogruppo è solo un organismo informale che si riunisce ai margini dell’Ecofin. Esso va reso autonomo e deve diventare la sede di gestione degli affari economici dei Paesi membri dell’euro. A tal fine non sembrano sufficienti le cooperazioni rafforzate, ma sono probabilmente necessari trattati specifici. Ferma restando la necessità di tutelare i Paesi più piccoli, le decisioni dovrebbero essere assunte tenendo conto anche della dimensione dei diversi Paesi membri, senza diritto di veto, salvo che in casi specifici ed eccezionali.
- L’Unione Europea va riformata profondamente, a partire dalla sua architettura costituzionale. La stessa vicenda della Brexit dimostra il fallimento sin qui del processo europeo, nonché la necessità di un cambio di passo. Poniamo al centro di una nuova stagione costituente e democratica la necessità di diverse riforme: quella del Parlamento Europeo, a cui vanno attribuiti poteri pienamente legislativi, innanzitutto su materie strategiche come la politica estera, la programmazione e la realizzazione dei progetti d’infrastrutturazione a rete, di corridoi produttivi e di viabilità.
- Gli indirizzi di politica economica vanno cambiati ed adeguati alla realtà attuale. Ora i rischi prevalenti sono la stagnazione, la disoccupazione, la sottoccupazione, la precarietà e la svalutazione del lavoro. La zona euro deve quindi adottare misure idonee a perseguire la piena e buona occupazione al suo interno, una crescita delle retribuzioni in linea con gli incrementi delle produttività, l’eguaglianza non solo delle condizioni di partenza, ma anche degli esiti finali. A tal fine si richiede una gestione unitaria, coordinata e differenziata delle finanze pubbliche dei diversi Paesi. Vanno quindi superati il Fiscal Compact e gli attuali meccanismi di sorveglianza macroeconomica, al fine di interrompere la politica del rigore e favorire gli investimenti (in primis l’introduzione della golden rule per gli investimenti ad alto moltiplicatore). In tale contesto può essere utile prevedere un bilancio comune per la zona euro purchè esso non sia di dimensioni puramente simboliche; a tal fine potrebbero ritornare utili alcune delle proposte avanzate recentemente da Piketty.
- Va iniziato un dibattito sui poteri e sul ruolo della Banca Centrale per pervenire ad una riforma del suo statuto. La Bce non può limitarsi al solo controllo della inflazione. Al contrario, nel contesto della stabilità dei prezzi, la Bce deve sostenere un regime di politiche espansive sull’esempio della Fed americana.
- L’Unione bancaria va completata. Occorre fermare e invertire il processo di balcanizzazione finanziaria che si è realizzato in Europa dopo la crisi,introdurre l’assicurazione dei depositi (superando così il bail-in), estendere la vigilanza bancaria per coprire nella stessa misura i vari sistemi bancari nazionali (cosa che adesso non accade), valutare non solo i rischi di credito delle banche, ma anche quelli di mercato (derivati). Vanno ricreate le condizioni per una convergenza dei tassi di interesse verso un unico valore eliminando gli spread, come avvenuto subito dopo l’introduzione dell’euro, superando le politiche che hanno portato alla segregazione dei rischi a livello nazionale. Nel contesto di questo nuovo approccio, va ripresa una riflessione sulla gestione dei debiti pubblici eccessivi di alcuni Paesi sulle linee del rapporto dei “saggi” tedeschi di alcuni anni fa, e di altre proposte successivamente avanzate. Un ordinato smaltimento dei debiti eccessivi è nell’interesse di tutti i Paesi dell’Unione.
- Il processo di armonizzazione fiscale, accantonato a favore dell’approccio liberista della concorrenza fiscale, deve riprendere, soprattutto per la zono euro, e per quanto riguarda la tassazione delle imprese (attuando la CCCTB) e dei capitali e deve iniziare una lotta senza quartiere ai paradisi fiscali esterni, ma anche interni all’Unione (Lussemburgo, Olanda, Irlanda…), e al segreto bancario. Si deve superare il requisito dell’unanimità in materia fiscale. Va risolto a livello europeo anche il problema della tassazione delle imprese del web, realizzando proposte già avanzate e bloccate dalla esitazione di alcuni Paesi (tra cui la Germania). Vanno introdotte imposte ecologiche, e modificati in questa direzione i prelievi sull’energia esistenti, compensando eventuali aggravi per i cittadini con bassi redditi.
- Queste proposte potranno avere qualche possibilità di realizzazione solo se in Europa si supera il clima attuale di sfiducia e diffidenza reciproca. Ciò richiede che i Paesi core riconoscano che vanno tutelati gli interessi di tutti i Paesi membri e che Paesi come l’Italia evitino atteggiamenti puramente propagandistici e polemici nei confronti delle istituzioni europee tali da minare la fiducia dei nostri partner.
3) Europa e lavoro, transizione tecnologica
- L’Europa necessita di una politica industriale coordinata e strategicamente orientata. In questo contesto va superata l’attuale normativa sugli aiuti di Stato, che indebolisce gravemente i Paesi europei. In Europa non esistono imprese di dimensioni adeguate attive nei settori del web e negli altri settori emergenti dell’economia contemporanea. Non esistono progetti comuni per lo sviluppo di veicoli senza conducente, per le auto elettriche, per la robotica, per l’intelligenza artificiale, per le telecomunicazioni, per i big data; non esiste una società di revisione europea, ecc. Sono necessari progetti comuni e grandi investimenti in ricerca e sviluppo per il loro decollo, che superino il riflesso condizionato dell’accordo franco-tedesco.
- Allo stesso tempo, occorre una riforma e un’armonizzazione delle normative sul mercato del lavoro.
Nello specifico, occorre una legge sul salario minimo orario che impedisca o riduca al minimo il dumping. Occorrono poi politiche sociali integrate, un diritto del lavoro europeo che affermi standard sociali uniformi, riformando radicalmente l’attuale normativa sui lavoratori dislocati. L’Europa deve chiedere nelle sedi opportune che i Paesi che fanno parte del WTO adottino le prescrizioni dell’ILO (International Labour Organization) in modo da ridurre la concorrenza sleale tra imprese e Paesi.
- Dal punto di vista commerciale, l’Unione Europea deve promuovere standard globali e vincolanti in materia di sviluppo, equità fiscale, tutela dei consumatori, diritti dei lavoratori e cambiamenti climatici in tutte le sedi internazionali. A tale riguardo, standard vincolanti di responsabilità sociale delle imprese dovrebbero costituire parte integrante degli accordi commerciali e di investimento, spostando l’onere della conformità dai paesi in via di sviluppo alle società transnazionali che operano e traggono profitto dalle catene globali del valore.
- Ma si tratterebbe di correttivi insufficienti se non si ponesse a tema, insieme, la grande questione della rivoluzione tecnologica in corso e dei suoi effetti sul lavoro (e la vita) di miliardi di persone. È tema che deve interessare le istituzioni europee, la sinistra e il sindacato, il cui ruolo va riconosciuto e valorizzato, ma che – se non assume fino in fondo questa dimensione globale ed europea dei fenomeni – rischia di rimanere travolto dalle innovazioni.
- I processi innovativi, a partire dalla crescita vertiginosa della potenza di calcolo (di cui i supercomputer sono l’espressione più plastica e simbolica) vivono dentro e fuori il perimetro produttivo: trasformano la macroeconomia, l’organizzazione produttiva, l’organizzazione del lavoro. Occorre attrezzarsi sul piano teorico e legislativo perché la ricerca e lo sviluppo sul terreno tecnologico (di conseguenza: un piano di investimenti europei nel settore dell’innovazione) sono parte essenziale della sfida per il progresso e per il futuro; e perché la gestione della rivoluzione tecnologica non deve danneggiare (anzi: può aiutare) le condizioni di vita dei lavoratori e dei cittadini. In quest’ottica una riflessione sulla riduzione del tempo di lavoro a parità di salario è fondamentale.
4) Europa e transizione climatica, ecologica
- La seconda grande sfida che è di fronte a noi è quella ambientale. Non occorre scomodare Papa Francesco e l’enciclica Laudato si’ per capire la portata della questione ambientale, destinata – senza una correzione di rotta radicale, di sistema – a travolgere l’umanità.
- Sono due i pilastri di una sfida ecosocialista all’altezza della fase storica: una transizione ecologica dell’economia globale, a partire da quella europea; un modello di cooperazione internazionale basata su regole certe e condivise.
- Il passaggio da un’economia fossile a un’economia ecosostenibile (a zero emissioni nette entro il 2050, come stabilito a Parigi) richiede un livello di investimenti senza precedenti (stimato dalla Commissione Europea in 2 mila miliardi di euro nei prossimi dieci anni per nuove infrastrutture, le energie rinnovabili e l’efficienza energetica).
- La rivoluzione verde passa per la riconversione ambientale ed economica dei comparti di produzione maggiormente inquinanti, per un piano europeo straordinario di bonifica dei territori, di risanamento idrogeologico, di efficientamento energetico degli edifici, di riduzione alla fonte dei rifiuti; per la costruzione di mezzi di trasporto elettrici e politiche di condivisione che trasformino la vita delle città, contribuendo ad abbattere l’inquinamento dell’aria.
- Parallelamente all’azione interna, l’Europa deve ridefinire il proprio ruolo in rapporto con il mondo. L’impatto dei cambiamenti climatici (oltre 20 milioni di persone all’anno si muovono a causa di disastri naturali; rischio tendenziale di siccità e inagibilità per gran parte del Medio Oriente e dell’Africa) impone investimenti strategici sul terreno della cooperazione internazionale, dedicando risorse innanzitutto alla riorganizzazione dei sistemi idrici, alimentari, e infrastrutturali delle regioni più vulnerabili e nel vicinato, come l’Africa Sub-Sahariana e il Nord Africa.
5) Europa e Mediterraneo
- L‘Europa per noi è anche frontiera con mondi, identità, mercati immediatamente prossimi. Occorre un‘Europa che svolga fino in fondo la propria funzione geografica di ponte con l’Oriente, con il mondo arabo e con il Mediterraneo. Quest’ultimo, culla della nostra civiltà, è parte integrante dell’Europa: per questo deve riconquistare una centralità assoluta, sia attraverso un’azione coordinata e univoca delle istituzioni europee, sia attraverso un’iniziativa diretta del nostro Paese. La proposta del «passaporto mediterraneo» si colloca all’interno di questo approccio. Ciò sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista commerciale (chiamando a un tavolo di confronto e collaborazione la Cina, che è oggi il dominus e il crocevia di molti dei problemi africani) e dal punto di vista culturale. L’alternativa al dialogo con l’Est e il Sud è — inevitabilmente — il modello dell’Europa fortezza e della chiusura identitaria. Questo modello non è il nostro, sia perché esso tradirebbe le nostre stesse radici sia perché non farebbe che esasperare e rendere meno gestibile il fenomeno migratorio.
6) Europa, multipolarismo e pace
- L’unica garanzia per un mondo stabile, capace di condividere pace e benessere, è un assetto multipolare, all’interno del quale l’Europa giochi fino in fondo un ruolo autonomo con una sua vera e unica politica estera e di difesa. In questa direzione un sistema di difesa europeo è un obiettivo auspicabile, a patto che la sua realizzazione proceda di pari passo con il rafforzamento di processi istituzionali che rendano effettivamente democratico il controllo di settori così delicati e importanti della politica europea.
- La scelta da parte di Trump di ritirare unilateralmente gli Stati Unitidall’accordo firmato con i russi nel dicembre 1987 sulla distruzione delle testate missilistiche nucleari in Europa è pericolosa e indicativa, al pari della vicenda ucraina. Anche la Russia ha le proprie responsabilità.
- Il ruolo dell’Europa dev’essere quello di dialogare con gli Usa, con la Russia, con la Cina e i nuovi player internazionale, esprimendo sempre un punto di vista autonomo coerente con gli interessi europei. La vicenda venezuelana dimostra in queste settimane la necessità di una grande cautela e di una grande capacità di mediazione di cui l’Europa oggi è sprovvista.
7) Europa, immigrazione e diritti umani
- L’Europa ha bisogno di un cambio di passo sul terreno dei diritti umani, innanzitutto in relazione al fenomeno migratorio. Ciò può avvenire a condizione che si superi l’impostazione securitaria della Road Map di Bratislava, approvata dal Consiglio europeo nel settembre 2016 (rafforzamento militare delle frontiere esterne, costituzione Guardia frontiera e costiera per prevenire arrivi di migranti, limitazioni nelle politiche dei visti, ecc.) e che l’Europa – rilanciando la riforma del Regolamento di Dublino (IV), approvata dal Parlamento europeo ma di fatto bloccata dal Consiglio europeo – non scarichi la responsabilità di gestione dei flussi sui Paesi di primo accesso ma assuma su di sé la responsabilità della gestione del fenomeno in nome dei principi di solidarietà ed equa condivisione delle responsabilità. Occorre cioè un sistema d’asilo europeo, con un meccanismo razionale di ricollocamento permanente e automatico che obblighi tutti gli Stati membri a fare la propria parte sull’accoglienza. Questa proposta deve andare di pari passo con altri obiettivi: in primo luogo una cooperazione con i Paesi costieri completamente diversa da quella improntata dagli ultimi governi, in funzione puramente contenitiva e repressiva. Occorre piuttosto un sistema di corridoi umanitari serio e rigoroso. In secondo luogo una cooperazione con i Paesi africani e medio-orientali di provenienza dei migranti, per facilitare condizioni di stabilità e sviluppo infrastrutturale e sociale. Tutto questo non può essere in contraddizione con il principio della libertà di movimento e di circolazione, diritto umano sancito dall’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani e dall’articolo 12 del Patto sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite.
- In Italia è necessario elaborare una nuova legge sull’immigrazione che superi definitivamente la legge Bossi-Fini e i successivi decreti Maroni e Salvini. In particolare tale legge dovrebbe abolire il reato penale cosiddetto di “clandestinità”; regolamentare la possibilità di flussi in entrata per la ricerca del lavoro o altri legittimi interessi (necessari per evitare ingressi irregolari e pericolosi); rafforzare il sistema di accoglienza mediante la valorizzazione delle Regioni e dei Comuni (Rete SPRAR); rafforzare il sistema di accoglienza mediante le competenze delle reti associative, del privato sociale e del cooperativismo sociale; contrastare lo sfruttamento delle persone immigrate (lotta al caporalato, alla schiavitù, ecc.); riprendere il percorso sul diritto a una piena cittadinanza per tutti i cittadini europei (nello specifico, per i giovani di seconda generazione) e sull’ampliamento dei relativi diritti politici.
- Numerose organizzazioni non governative e di monitoraggio dei diritti umani segnalano che in Europa – soprattutto nell’Est Europa – si va affermando una pericolosa contrazione dei diritti civili (libertà d’associazione, di espressione, d’opinione) che è coerente con processi di erosione dei diritti economici, sociali e culturali (a partire dall’istruzione) di decine di milioni di persone e con vere e proprie violazioni sistematiche dei diritti umani (tortura, maltrattamenti, violenze di genere, discriminazioni, stigmatizzazioni delle minoranze).
- Per potere essere sentinella dei diritti umani nel mondo, l’Europa deve esserlo innanzitutto, in maniera inflessibile, in casa propria. Da questo punto di vista rileviamo che il movimento per i diritti umani sta attraversando parecchie difficoltà. Dopo decenni di conquiste, molti paesi sembrano avere fatto passi indietro. Dalle Filippine all’Ungheria, dal Brasile all’Arabia Saudita, molti leader populisti esprimono in modo sistematico un disprezzo totale nei confronti dei diritti umani e di chi li difende. L’espansione delle politiche internazionali a favore dei diritti umani si è accompagnata al fenomeno economico che ha portato all’ascesa del populismo radicale e del nazionalismo. Sottolineiamo in particolare questo aspetto: l’attivismo per i diritti umani deve procedere di pari passo con la rimozione progressiva dei guasti prodotti dalla globalizzazione. Non ci sono diritti umani senza diritti sociali e senza eguaglianza.