di Simone Oggionni
Sulla Stampa Lucia Annunziata ha dedicato un articolo al Manifesto per il nuovo Pd votato sabato dall’assemblea nazionale costituente, alla quale abbiamo partecipato. Mi ha colpito il giudizio complessivamente severo sul testo, che Annunziata definisce generico, intriso di proposte di banale buon senso, che tradirebbe al fondo il tentativo di «non toccare nervi scoperti» e di «tenere insieme visioni contrapposte». Lo trovo un giudizio ingeneroso per un testo che prova invece a proporre una visione organica del Paese e della società, orientata da un impianto riformatore.
Ma il giudizio severo mi ha colpito anche perché negli ultimi quindici anni, in diverse forme e con diverse esperienze, abbiamo tentato, fuori dal Pd, di tenere aperta una prospettiva alternativa, fondata su manifesti (e su visioni del mondo) tutt’altro che «flautati» e «confortevoli». Abbiamo provato a esercitare un punto di vista radicale, netto, conflittuale e non possiamo dire di avere complessivamente goduto, diciamo così, di buona stampa.
Soprattutto in stagioni nelle quali, ben oltre le carte dei valori, erano le politiche del Partito democratico al governo a determinare un problema di rappresentanza rispetto ai ceti popolari e alle ragioni storiche della sinistra.
La nuova fase
Oggi ci troviamo in una fase nuova. Al governo c’è la destra (anche, appunto, per gli errori strategici e tattici compiuti negli anni passati) e dentro il Partito democratico è maturata una riflessione autocritica, che ha innescato il percorso costituente e rifondativo. Che oggi ha un nuovo Manifesto, nel quale si riconoscono tutti i candidati alla segreteria, e un impegno collegiale a proseguire la fase costituente anche dopo il 26 febbraio. Il fatto stesso che anche il cambiamento del nome non sia un tabù dimostra che qualcosa si è messo in moto.
Ora si tratta di capire se, ben al di là di una lettura spesso semplicistica delle candidature in campo, matura una consapevolezza nuova nell’indirizzo complessivo, nell’azione politica, al centro e nei territori, nei prossimi mesi. Noi pensiamo che possa maturare se contribuiamo ad aprire porte e finestre e se diamo una mano in prima persona.
Su quale base? Sulla base di una lettura della fase storica che stiamo attraversando e della società italiana che ci spinge ad assumere la lotta alle diseguaglianze e alle ingiustizie sociali come il faro del nostro impegno politico. Sulla base di un impianto solido, che punta a mettere in pratica il dettato costituzionale. Da qui discendono le proposte programmatiche che anche sabato scorso abbiamo richiamato: dal salario minimo alla riforma della contrattazione, dalla lotta alla precarietà alla difesa della sanità pubblica, da un piano di investimenti seri ed europei per scuola, Università, ricerca e cultura sino a una riforma fiscale fondata sull’equità orizzontale e sulla progressività.
Il ruolo del mercato
La stessa discussione sull’esigenza di un nuovo equilibrio tra Stato e mercato va inquadrata in una lettura coerente con la migliore tradizione della sinistra europea e soprattutto in una lettura adeguata al tempo presente, alle grandi crisi e alle grandi trasformazioni (ecologica ed energetica, digitale, sociale, pandemica): le politiche di programmazione e le politiche industriali, che da sempre hanno accompagnato scelte espansive e redistributive, hanno senso se smettono di essere feticci ideologici e diventano pratiche concrete, sostanziando un rapporto solido con il tessuto industriale e imprenditoriale del nostro Paese.
È vero: occorre riconquistare un rapporto con i ceti produttivi e un’idea del rapporto tra ceti produttivi. Ed è la politica che deve proporre un orizzonte, indicare le priorità strategiche, un modello di sviluppo, un paradigma.
Solo così si può stringere un patto: responsabilità sociale, sostegni qualitativi e quantitativi agli investimenti in processi e in prodotti innovativi e compatibili con la transizione ecologica, impegno alla redistribuzione di profitti che, a monte, sono garantiti dalla qualità e dall’innovazione e non dalla concorrenza al ribasso sul costo del lavoro.
Il Manifesto per il nuovo Pd è utile in questa direzione, fornisce una cornice di senso alla discussione programmatica e al futuro. È un passo avanti importante che ora va praticato, tenendo aperta la discussione nelle parti che appaiono ancora problematiche. Penso innanzitutto alle questioni internazionali, dove una prospettiva compiutamente e realmente europeista va affermata — a mio avviso — nella direzione di una vera autonomia strategica sul terreno del rapporto tra pace e guerra e, appunto, sul terreno delle politiche industriali e del modello di sviluppo.
Ma rimane la questione di fondo: questo a me pare il tempo in cui contribuire a una fase nuova nella storia della sinistra e del centro-sinistra italiani, provando a rafforzare e a cambiare il più grande partito progressista del nostro Paese. Vale per chi, come me e come molti di noi, non ha mai avuto in tasca la tessera del Partito democratico.
Forse — ma lo affermo sommessamente, con grande rispetto per storie diverse dalla nostra — potrebbe valere anche per chi in questi quindici anni, lungi dal problematizzare i nodi identitari irrisolti del Partito democratico, lo ha invece sempre sostenuto e talvolta celebrato.
Anche prima di questo coraggioso e condivisibile tentativo (suo e ora nostro) di riconquistare spazio, identità e consenso a sinistra.