Oggionni: a cento anni dalla scissione del Pci, nessun erede

Politica e Primo piano

Pubblicato su Huffington Post

di Simone Oggionni

Cento anni da Livorno, dalla scissione del Partito comunista d’Italia. Una ricorrenza che sta scatenando – come era forse prevedibile – le due fiere della damnatio memoriae e della nostalgia. Penso invece che l’occasione dei cento anni debba indurci a sviluppare alcuni interrogativi.

Il primo, essenziale: di quale Pci stiamo parlando? Del nucleo del 1921, con il suo carico di avanguardismo e settarismo, o di quello che prende forma con le tesi di Lione di Antonio Gramsci? E ancora: del partito della clandestinità o di quello della svolta di Salerno, del partito nuovo che Togliatti lancia e costruisce come architrave della democrazia repubblicana?

E ancora: dopo la lunga stagione togliattiana, nella quale si consolida questo strano partito giraffa, che cosa prevale e che cosa rimane? O meglio: in che misura si combinano l’appartenenza al campo socialista, l’autonomia, la compatibilità, la prospettiva rivoluzionaria? E, infine, negli anni Ottanta: siamo sicuri che il partito della solidarietà nazionale sia lo stesso della seconda svolta di Salerno, quella con cui Berlinguer ricolloca il Pci nell’alternativa, nella critica radicale alla crisi del sistema?

Pongo queste prime domande, in gran parte retoriche, perché ho l’impressione che non si possa parlare del Pci se non studiandone da vicino la pluralità di spinte, suggestioni, sensibilità che si susseguono e si affiancano. Agli amanti delle banalizzazioni, che in questi giorni pontificano assegnando e ritirando patenti, occorrerebbe rispondere con un richiamo allo studio e all’approfondimento.

A chi racconta la favola di un partito servo di Mosca e non democratico, occorrerebbe ricordare la svolta di Salerno e la riconduzione della lotta partigiana nell’alveo della democrazia parlamentare, con cui Togliatti e il partito maturano una scelta di campo strategica. Il punto semmai è capire quale cultura politica e quale prospettiva siano prevalse successivamente dentro quella scelta di campo democratica.

Che si sia nei fatti affermata – nel vivo delle trasformazioni strutturali che hanno cambiato il volto dell’Occidente negli anni Settanta – un’opzione socialdemocratica, mi pare fuori discussione. Che quell’opzione sia stata sottoposta a revisione dal secondo Berlinguer in nome di un’idea più piena e più complessa di democrazia, con un grado di consapevolezza maggiore rispetto al significato dell’allora incipiente rivoluzione neo-liberista, mi pare altrettanto chiaro. Così come ho l’impressione che la svolta di Occhetto abbia assunto tratti deboli, contraddittori, oggettivamente inadeguati rispetto alla forza d’urto delle trasformazioni in corso.

Ecco allora un altro interrogativo, al quale dovremmo provare a rispondere: perché nell’arco di pochi anni, appena morto Berlinguer, scopriamo un partito senza più anticorpi, talmente desideroso di archiviare e rimuovere la sua storia da cambiare nome e soprattutto sostanza, abbracciando – in nome del nuovismo – le più antiche ricette liberal-democratiche?

E perché il Berlinguer dell’alternativa, della lotta ai cancelli della Fiat e contro il taglio della scala mobile, il Berlinguer che incontra il movimento pacifista nella mobilitazione contro gli euro-missili e le donne e i giovani che in quegli anni affermano istanze e bisogni diversi e provano a declinare in forme nuove ma coerenti una identità comunista all’altezza dei tempi, non trova eredi?

E complessivamente: quali e quante sono le occasioni mancate che quel partito ha segnato nell’appuntamento con la storia? E più precisamente: quale idea, quale progetto di democrazia poteva imporsi nella proposta complessiva del Pci del dopoguerra e invece si è progressivamente eclissato? Esiste un filo rosso che unisce il Gramsci dei Consigli, la democrazia progressiva di Togliatti, le riflessioni sulla democrazia industriale e consiliare negli anni Sessanta e Settanta, l’opzione del secondo Berlinguer e che non si è voluto tenere teso fino in fondo?

Non sembrino domande oziose e non sembri irriverente interloquire in forma di interrogativi con il dibattito che si è aperto. Io penso che ci sia ancora molto da studiare e molto da scavare. Non soltanto rivolgendosi all’interno della comunità degli studiosi, dei ricercatori, degli appassionati di storia e di dottrine politiche. Ma anche alla politica e in primo luogo a quella sinistra che di quella vicenda è erede. Il dramma – questo è il punto fermo che mi sento di rimarcare – è che non esistono soggetti politici non solo interessati ma soprattutto credibilmente candidati a rappresentarne l’eredità.

Non il Pd, che pure ha raccolto, direi per inerzia, la parte principale di quel patrimonio. Non le formazioni ultra-identitarie della sinistra comunista, che sono sia per storia dei suoi gruppi dirigenti sia per cultura e linea politica semmai eredi delle frazioni estremiste degli anni Settanta. Ma neppure, ahimé, i partiti che siedono in Parlamento a sinistra del Pd.

Da loro, e in primo luogo da Articolo Uno, che oggettivamente ha la responsabilità più grande, deve provenire lo stimolo a promuovere un progetto politico – rivolto al Pd e soprattutto, nella società, ai soggetti orfani di un grande movimento democratico e socialista dei lavoratori – che punti a raccogliere il testimone di quella grande storia. Anzi: di quel nocciolo duro di cultura politica – Lucio Magri lo chiamava il «genoma Gramsci» e più precisamente la lettura togliattiana di Gramsci, che costituisce il cuore della svolta di Salerno – che nel corso dei decenni successivi si è talvolta affermato con scelte coerenti e talvolta è stato contraddetto con esiti regressivi.

Occorrerebbe confrontarsi. Provare a rispondere alle domande che la storia ci pone e riprendere il filo di una riflessione capace di dire, per esempio, quali sono stati i tornanti nei quali quel genoma gramsciano è stato abbandonato. Sarebbe un buon modo per riprendere il cammino.