Il documento approvato dall’Assemblea nazionale “Fare costituente” del 17 e 18 dicembre 2022 insieme alla relazione di Roberto Speranza
Negli ultimi quattro decenni sono cresciute in modo sconvolgente le disuguaglianze economiche, sociali e territoriali, mentre quelle di genere e di generazione si sono cronicizzate. All’accumulo di enormi patrimoni da parte dei detentori della ricchezza finanziaria si è accompagnato l’indebolimento del reddito del ceto medio e l’aumento delle aree di povertà.
Il cuore di questo processo è stato la progressiva perdita di valore del lavoro, prodotta dalla compressione dei salari e dall’aumento della precarietà: se il discorso sull’uguaglianza non parte da qui è pura astrazione o distorsione della realtà. Perseguire equità e giustizia sociale significa restituire dignità al lavoro, proteggere ed estendere i suoi diritti, ricostruire il suo valore, non solo materiale ma esistenziale, riconoscere il valore delle attività di riproduzione sociale essenziali per la vita e per la cura del mondo, ma invisibili, e che, scaricate troppo spesso sono unicamente sulle spalle delle donne.
Il primo passo da fare è lasciarsi alle spalle le attuali forme di precarietà e frammentazione del mondo del lavoro superando definitivamente il Jobs Act. Le forme contrattuali vanno ridotte, semplificate e dotate di un sistema di tutele comuni, mentre quelle atipiche e poco remunerate vanno fortemente limitate fino al loro superamento. La riunificazione del lavoro passa attraverso un nuovo Statuto dei lavoratori e il riconoscimento di un corpus di diritti fondamentali indipendentemente dalla forma contrattuale.
Il secondo passo è una legge sulla rappresentanza e la democrazia nei luoghi di lavoro, in attuazione del dettato costituzionale. Le organizzazioni più rappresentative hanno il diritto di contrattare senza condizionamenti e ricatti dei contratti pirata, mentre chi lavora ha diritto di partecipare e di votare sulle scelte fondamentali.
Terza priorità è l’introduzione del salario minimo per innalzare lo stipendio di coloro che operano nei settori meno qualificati del terziario. Tenere insieme rappresentanza e salario minimo consente di rafforzare il ruolo della contrattazione collettiva nazionale e di rilanciare la funzione democratica di rappresentanza delle organizzazioni sindacali e datoriali, che qualifica il ruolo dei corpi intermedi di una società pluralista.
I rapidi mutamenti tecnologici e la rivoluzione digitale pongono la questione di una riduzione degli orari di lavoro, come sta avvenendo in tutta Europa, per garantire una migliore qualità di vita: tutti gli indicatori attestano che il numero medio di ore lavorate pro-capite è nettamente superiore a quello dei principali paesi europei, a fronte di livelli di disoccupazione insopportabilmente alti tra donne e giovani.
Un altro impegno fondamentale è quello per una vera parità salariale e per una contestuale valorizzazione del lavoro delle donne. Nonostante le leggi, nella prassi quotidiana in troppe aziende prosegue la discriminazione di genere, in tema di salario e di percorsi di carriera, che si aggiunge a quella nell’accesso all’impiego. In Italia lavora circa una donna su due, con un’incidenza rilevante di contratti atipici, temporanei, precari: servono politiche pubbliche, un investimento massicciò ed inedito sulle infrastrutture sociali, un grande piano per il lavoro delle donne a partire dal Mezzogiorno.
All’Italia serve una grande forza popolare, che abbia il suo cardine nella rappresentanza del mondo del lavoro come leva per la trasformazione democratica e sociale. Ristabilire una più forte connessione con i lavoratori e le lavoratrici è la condizione indispensabile per rimettere radici profonde nella società italiana, per ricostruire un nesso con il mondo del sindacato, dell’associazionismo, del volontariato e per riaprire il confronto con tutte le forze di opposizione che si riconoscono nel campo progressista.
Per questa ragione sosteniamo con forza la proposta di inserire un esplicito riferimento al lavoro nel nome e nel simbolo del partito per rafforzare quella prospettiva ecologista e socialista che serve al paese.
L’Italia e l’Europa per la pace e il multilateralismo
Noi vogliamo rilanciare la sfida di un’Europa Politica: vogliamo contribuire a dare al Continente, alle sue Istituzioni e ai suoi meccanismi decisionali, una rinnovata vocazione unitaria, per essere capaci di affrontare tempestivamente, uniti sia internamente sia verso l’esterno, le crisi sistemiche e di trasformazione che inevitabilmente caratterizzeranno i prossimi anni.
Qualificando anche la nostra competitività su obiettivi di pace, per uno sviluppo compatibile con l’ecologia, per una società disegnata intorno alla dignità della persona umana, all’inclusione e alla cura, a una seria politica di accoglienza nei confronti di chi migra e cerca una nuova prospettiva di vita, intorno a un lavoro di qualità come vettore di democrazia, emancipazione e giustizia sociale.
L’Unione Europa può e deve giocare un ruolo forte, di autonomia, anche dal punto di vista militare, agendo come fattore di equilibrio essenziale all’interno di un assetto multipolare del mondo che va rafforzato anche attraverso un percorso di valorizzazione e riforma della governance internazionale, a partire dall’ONU.
Noi crediamo fortemente in alcuni principi.
Innanzitutto, nel principio della coerenza e di un rinnovato internazionalismo.
Crediamo in una visione integrata e pacifica della difesa comune. Non siamo d’accordo con la crescita delle spese militari. Occorre razionalizzare la spesa per la difesa, coordinando a livello europeo le capacità esistenti, sia convenzionali sia non convenzionali (cyber security, controllo e repressione dei crimini finanziari, intelligence). Occorre poi praticare una politica di pace e di disarmo, da perseguire con determinazione, anche nella ricerca di accordi parziali ma sempre più ambiziosi in vista del disarmo globale.
Crediamo in un’Europa solidale e capace di una iniziativa economica e sociale unitaria e coordinata.
La Commissione europea uscita dalle elezioni 2019 si è dimostrata – principalmente grazie alla forza dimostrata dai Progressisti – all’altezza della sfida della Pandemia COVID19. Il Next Generation EU è stato un segnale decisivo nella direzione di una nuova vocazione dell’Unione. Ora occorre proseguire su questa strada, dimostrare che non si è trattato di un compromesso temporaneo o di un’eccezione estemporanea, dettata da un contesto di emergenza. Occorre riformare in profondità il Patto di Stabilità, accentuando i primi positivi passi in avanti contenuti nella bozza di riforma proposta dalla Commissione. È essenziale il tema del coordinamento delle politiche macroeconomiche dell’Unione e della creazione di un vero e proprio spazio fiscale europeo. Non basta una maggiore flessibilità nell’applicare i criteri decisi a Maastricht, perché questi hanno dimostrato tutta la loro inadeguatezza e tutta la loro infondatezza. Inoltre, l’UE deve riempire di contenuti il senso di una rinnovata autonomia strategica interna, dotandosi di una vera politica industriale comune, di una nuova forma di pianificazione comune a medio termine. Va aperta una rinnovata stagione di campioni europei in materia industriale, energetica e digitale, nell’ambito della necessaria transizione ecologica. Per fare tutto questo, noi auspichiamo coraggio e quindi la revisione dei trattati attuali e, al tempo stesso, l’impegno ad agire anche nel quadro dato, a trattati costanti.
Democrazia e unità nazionale
La crisi della nostra democrazia deriva anzitutto dal fatto che essa non può contare da tempo su partiti in grado di svolgere la funzione essenziale assegnata loro dalla Costituzione nata dalla Resistenza antifascista. La questione morale è figlia dell’indebolimento della politica, della sua perdita di autonomia rispetto al mercato e agli interessi privati, dell’affievolimento delle identità culturali e dei punti di riferimento sociali da rappresentare e, conseguentemente, nella destrutturazione delle organizzazioni che fino al secolo scorso avevano integrato nel gioco democratico milioni di donne e di uomini fino ad allora esclusi dall’esercizio del potere istituzionale per ragioni di censo. Per questo riteniamo essenziale indicare alcune scelte di fondo in grado di affrontare questa patologia alla lunga insostenibile per il sistema democratico:
1. Legge sulla democrazia interna dei partiti sulla base del riconoscimento del ruolo costituzionale ad essi attribuito dall’art. 49 Cost.: diritti minimi degli iscritti, trasparenza e democraticità delle procedure, tutela del pluralismo, delle minoranze interne e della parità tra uomini e donne, regolarità e periodicità dei congressi e dei meccanismi di selezione interna, obbligo di dedicare una quota delle risorse ad attività di studio ed elaborazione programmatica e a iniziative per favorire la partecipazione politica delle donne.
2. Reintroduzione del finanziamento pubblico dei partiti su base democratica (=voto degli elettori) e non censitaria (=capacità di contribuzione fiscale dei donatori privati). Finanziamento subordinato a rendicontazione integrale delle spese, certificazione esterna dei bilanci da parte di un’agenzia pubblica indipendente, rispetto dell’obbligo di dedicare una quota delle risorse ad attività di studio ed elaborazione programmatica. Norme più stringenti sui finanziamenti privati a partiti e fondazioni di cultura politica, divieto di utilizzare le risorse dei gruppi parlamentari e consiliari per attività di partito sul territorio.
3. Superamento nell’impianto statutario del nuovo partito di meccanismi di investitura personalistica della leadership, che deprimono il ruolo delle iscritte e degli iscritti e il valore del confronto fra le piattaforme politiche.
La tutela dell’unità della Repubblica e dei diritti costituzionali fondamentali su tutto il territorio nazionale rappresenta per noi un principio non negoziabile. Nessuna declinazione dell’autonomia differenziata che metta in discussione questo principio può essere accettata.
Nell’assenza di una determinazione dei Livelli essenziali di prestazione, il trasferimento di sovranità alle regioni a statuto ordinario creerebbe uno squilibrio per i diritti dei cittadini, in ragione della potenziale frammentazione dei livelli del loro godimento, in particolare nelle materie della sanità e dell’istruzione pubblica. In assenza di una legge di attuazione del dettato costituzionale che fissi i limiti ai trasferimenti di materie alle legislazioni regionali, gli ambiti e i criteri di accesso al regionalismo differenziato, la mancanza della definizione di livelli “uniformi” delle prestazioni per i diritti civili e sociali, e dei fabbisogni standard, nonché della realizzazione della funzione perequativa, si presentano seri rischi rispetto all’equilibrio del sistema istituzionale, senza contare i rischi relativi al coordinamento e alla sostenibilità della finanza pubblica. È necessario, invece, il passaggio dal sistema dei trasferimenti fondato sulla spesa storica a quello che prevede la perequazione integrale dei fabbisogni, valutati a costi standard, necessari a garantire il soddisfacimento dei livelli essenziali delle prestazioni in tutto il territorio nazionale.
Il rischio è quello è di una ulteriore penalizzazione del Mezzogiorno, già segnato da una diffusione delle disuguaglianze ai più alti livelli d’Europa e da livelli fragili dei servizi pubblici locali.
In una fase economica molto complessa per il Paese, mentre con il PNRR l’obiettivo strategico si fonda sulla riduzione delle diseguaglianze nel Paese e sul superamento dei divari territoriali esistenti, non è possibile compiere scelte che producano ulteriori squilibri sul piano della giustizia costituzionale, della coesione sociale e dello sviluppo economico di tutto il Paese.
Inoltre, non si può pensare di ridurre il tema dell’organizzazione della Repubblica solo al rapporto Stato-Regioni. È invece necessario, nel solco dell’art. 5 della Costituzione, costruire un nuovo autonomismo che metta al centro le città e le altre articolazioni territoriali. In quest’ottica, occorre una riforma delle città metropolitane, delle province e degli enti di area vasta, riconoscendo e valorizzando il ruolo che i territori già oggi esercitano su materie di notevole rilevanza.
Difesa dei beni comuni, giustizia climatica, libertà delle donne
Va imboccata con determinazione la strada dell’economia circolare, che si fonda sul principio di garantire più cicli di vita alle materie prime. Significa cambiare radicalmente la filosofia della progettazione e della produzione di beni, attualmente basata – come ha scritto papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ – sulla «cultura dello scarto», sull’usa e getta, sullo spreco di materie prime. A valle dei cicli produttivi è determinante scegliere l’opzione «rifiuti zero» con una percentuale più alta possibile di recupero e riutilizzo.
Nel promuovere e difendere servizi pubblici universali e di qualità come parte indispensabile del modello di sviluppo del futuro, si deve raggiungere la definizione di beni comuni europei, cioè tutti quei beni che ormai non possono più, per opportunità politica o necessità finanziaria, essere generati solo nazionalmente.
Al centro di ogni progetto di rinnovamento e rafforzamento del welfare, a maggior ragione dopo la dura lezione della pandemia, deve esserci la Sanità pubblica. Il diritto alla salute e alle cure è il bene comune che fonda tutti gli altri. Due anni di emergenze ci hanno mostrato che il Servizio sanitario nazionale non è un costo ma è un patrimonio importantissimo: va finanziato e rilanciato. In Italia, per la prima volta dopo tanto tempo, grazie al nostro impegno negli ultimi due governi, la spesa sanitaria pubblica è tornata a crescere in misura significativa. Dobbiamo continuare su questa strada, perché nessuno debba mai più vedersi precluso l’accesso alle cure per ragioni economiche.
L’istruzione è un altro bene comune strategico per lo sviluppo della cultura, della legalità, della democrazia. È uno strumento di promozione sociale più che mai necessario in un Paese in cui l’ascensore sociale è bloccato da decenni e l’accesso al sapere troppo spesso diventa uno dei tanti privilegi di nascita. E come per la salute, anche per il diritto allo studio è inaccettabile che l’appartenenza geografica – l’abitare, per esempio, nelle aree interne e montane – debba segnare un destino di minori opportunità di istruzione e consumo culturale.
Abbattere questi e altri ostacoli che disegnano un’Italia a due velocità, in cui la diversità si declina negativamente in disuguaglianza, non è solo conveniente per il Paese: è la missione fondativa della sinistra. Ma è possibile solo partendo da una critica radicale alla subalternità al modello neo-liberale, che da decenni ha contagiato anche le politiche della conoscenza.
Il finanziamento dei beni comuni e in particolare del welfare universale richiede la costruzione di un sistema fiscale saldamente fondato su principi di equità: l’equità verticale, con cui si chiede a chi più ha di contribuire in misura superiore e l’equità orizzontale che non ammette regimi speciali, particolari differenziati ma richiede che a parità di reddito si paghino pari imposte. Occorre inoltre combattere ogni atteggiamento di benevolenza nei confronti di chi evade il fisco, caricando il peso della responsabilità comune sugli altri cittadini, e rendendo iniqui persino gli strumenti di valutazione della condizione economica per l’accesso ai benefici.
Battaglia per l’eguaglianza di genere e battaglia per il lavoro procedono di pari passo. Rimettere al centro e valorizzare l’economia della cura significa proporre una chiave di sviluppo alternativa, fondata su un diverso modello di relazioni tra uomini e donne, su un diverso rapporto tra sfera pubblica e sfera privata, tra tempi di vita e tempi di lavoro, sull’espansione delle politiche pubbliche, alternativo a quello fondato sulla logica del profitto e del predominio del mercato. Una società della cura è quella capace di farsi carico delle persone, dei loro bisogni, di contrastare la crescita dell’insicurezza e di rilanciare il valore della solidarietà e dei legami sociali. La libertà delle donne è uno strumento potente di cambiamento della società di affermazione di nuovi diritti e di spazi di autodeterminazione, in tutti gli ambiti della vita, per le donne e per gli uomini.
Per i diritti umani in Iran. Ordine del giorno approvato all’unanimità