di Maria Cecilia Guerra
L’attribuzione del premio Nobel per la pace 2018 a Nadia Murad e a Denis Mukwege, entrambi impegnati a battersi contro le violenze nei confronti delle donne che avvengono nei conflitti armati, è un evento di grandissimo rilievo. Porta infatti all’attenzione della comunità mondiale il tema degli stupri di guerra, che è stato troppo a lungo rimosso, pur essendo così diffuso in diversi contesti geografici e storici, compresa l’Italia, come ben testimoniato dal libro Stupri di guerra e violenze di genere a cura di Simona La Rocca, edizioni Ediesse, del 2015.
Ci sono continuità e differenze fra la violenza nei confronti delle donne in tempo di pace e in tempo di guerra.
Una importante differenza è che in tempo di guerra questa violenza cambia natura, diventa tollerata, autorizzata, quando non addirittura promossa e persino imposta a chi la deve praticare. Rispetto a quanto avviene in tempo di pace, muta la concezione della responsabilità individuale. La responsabilità di chi perpetra questa violenza diventa spesso merito, perché la violenza è esibita come conquista, come manifestazione della propria superiorità, e molto spesso rientra esplicitamente in una strategia di umiliazione e distruzione del nemico.
Ci sono però anche importanti elementi di continuità, che interagiscono in modo diverso in contesti diversi.
Da un lato, la visione dell’atto sessuale come atto di dominazione, di conquista, di vittoria, di potere che esplicita, o meglio enfatizza, una visione distorta della mascolinità nei rapporti di genere che è ancora parte di tanta cultura, anche dei paesi occidentali.
Dall’altro, nell’ambito dei conflitti armati, lo stupro non è solo un attacco al corpo della donna, ma è anche, in ragione delle norme, sia culturali che legali, delle abitudini, delle credenze relative non solo allo stupro ma in generale alla sessualità che caratterizzano i contesti sociali in cui avviene, una violenza, uno sfregio, una umiliazione rivolta a uomini, a religioni e culture, a interi gruppi etnici che in una certa visione di quel corpo si identificano.
E’ proprio il contesto sociale e culturale in cui si inquadra, e che si è però costruito in tempo di pace, che fa della violenza nei confronti delle donne in periodi di guerra un’arma di guerra.
Ed è questo stesso contesto che fa sì che la violenza subita eserciti i suoi nefasti effetti ben oltre il tempo di guerra. E’ quello che spiega la rimozione che per tanto tempo ha impedito un’analisi di questo fenomeno e che perdura nella stigmatizzazione delle donne che lo hanno subito, quasi ne fossero colpevoli, con le conseguenze di emarginazione sociale, fino a indurre a suicidio, che sono descritte in tante testimonianze.
Nello stupro di guerra è coinvolta, a fianco della dimensione sessuale del corpo della donna, anche quella riproduttiva, e questa svolge ovviamente un ruolo particolarmente importante per la comprensione del fenomeno. La violenza sulle donne è infatti molto spesso sistematicamente utilizzata con finalità di genocidio, con l’ idea cioè di indirizzare la riproduzione verso un’etnia diversa, e per questa via annientare il nemico depurandone la “razza”. Il tutto nella convinzione, sconvolgente, che la razza si trasmetta solo per via paterna. Questo uso della violenza a fini riproduttivi accentua il perdurare nel tempo del trauma per la donna che la subisce, che continua nell’ambivalenza, dolorosissima, del rapporto con il figlio che comunque hai, o hai portato, in grembo e che è figlio dell’uomo che ti ha stuprato.