di Maria Cecilia Guerra
Una riforma fiscale dovrebbe portare a un disegno organico della tassazione, che ponga rimedio alle stratificazioni e agli interventi estemporanei del passato. Invece, con il primo decreto legislativo di attuazione della delega fiscale, il vestito di Arlecchino che è diventata la nostra Irpef diventa sempre più pieno di toppe.
Vediamo come questa povera imposta esce dal decreto legislativo che, va detto subito, introduce modifiche a tempo, solo per il 2024.
L’Irpef
L’Irpef è una imposta progressiva per scaglioni: gli scaglioni sono quattro, ma, solo per il 2024, diventano tre, portando ai contribuenti un beneficio che vale per chi ha meno di 15 mila euro e raggiunge il suo valore massimo, 260 euro, per chi ha 28.000 euro o più.
Questa modifica richiede a tutti i Comuni e le Regioni che applicano una addizionale articolata in scaglioni di modificare la struttura del loro prelievo locale, per un solo anno, perché i limiti degli scaglioni delle addizionali devono essere gli stessi di quelli dell’Irpef nazionale. I lavoratori autonomi che rientrano nel regime Irpef dovranno versare gli acconti con riferimento alle vecchie aliquote, anche per l’anno in cui si applicano quelle nuove, provvisorie.
L’Irpef ha poi una struttura articolata di detrazioni dall’imposta. Le più rilevanti sono quelle per tipologie di reddito: lavoro dipendente, autonomo e pensioni. Queste detrazioni variano in funzione del livello di reddito e annullano le imposte dovute dai redditi più bassi, determinando delle aree di esenzione.
Per il solo 2024, la soglia di esenzione per i lavoratori dipendenti viene aumentata per renderla uguale a quella dei pensionati, con un guadagno, per i redditi fra 8174 e 8500 euro, di 75 euro. Ma questo innalzamento rischia, paradossalmente, di creare una seria perdita a quegli stessi lavoratori dipendenti, perché interagisce con un altro istituto: il trattamento integrativo che ha assorbito il vecchio bonus degli 80 euro.
Si tratta di un trasferimento con un andamento in funzione del reddito difficile da raccontare per la sua complessità.
La promessa mancata
Il trattamento integrativo non è riconosciuto ai redditi che ricadono nell’area di esenzione, mentre per i redditi subito fuori da questa area vale 1200 euro. Quindi, alzando la soglia di esenzione per dare 75 euro a qualche reddito basso, gli si farebbero perdere 1200 euro. Per evitare questo esito, il decreto legislativo sterilizza l’aumento della detrazione ai fini del calcolo del trattamento integrativo. Una pezza ulteriore. Solo per un anno.
Con il decreto, solo per il 2024, le detrazioni per i redditi superiori a 50.000 euro verranno diminuite di 260 euro. Quei redditi avranno quindi diritto a 260 euro in meno di sconto fiscale ad esempio sulle spese sanitarie.
Come si giustifica questo intervento in un momento in cui le spese sanitarie sostenute di tasca propria dai cittadini stanno crescendo sensibilmente? La logica (se di logica si può parlare) è di annullare per questi redditi il vantaggio fiscale, pari appunto a 260 euro, che ottengono dalla riduzione del numero degli scaglioni.
Ma questo vantaggio viene annullato solo per quei contribuenti che sostengono spese che danno diritto a detrazioni e non per i circa 500 mila che non le sostengono. E non viene in ogni caso annullato per i redditi sopra i 240 mila euro che abbiano solo detrazioni già cancellate.
Ora la domanda è: che senso ha impostare una riforma fiscale partendo con modifiche per un solo anno, prive di copertura per gli anni seguenti, complicate e illogiche, con una distribuzione casuale di un vantaggio molto modesto, fingendo che sia il primo gradino di una riforma, ancora da disegnare, ma sicuramente insostenibile nella sua promessa più forte, quella di una flat tax per tutti?