Intervista a Repubblica
di Valentina Conte
Lavorare meno per lavorare tutti, a salario invariato come ha rilanciato nei giorni scorsi il commissario dell’Inps Pasquale Tridico, sostenuto dal vicepremier Di Maio «è giusto ma solo quando c’è disoccupazione tecnologica, in un contesto cioè di perdita del lavoro provocata dalla trasformazione digitale», dice Maria Cecilia Guerra, ex viceministro al Lavoro nel governo Letta, docente di Scienze delle finanze all’università di Modena e ora candidata alle europee.
Cosa significa?
«Se siamo in presenza di una crescita senza lavoro, indotta dall’innovazione tecnologica, si crea una ricchezza concentrata nelle mani di poche imprese, le multinazionali dell’high tech. In questo caso è doveroso redistribuire i vantaggi di quella enorme ricchezza, tra l’altro spesso sfuggente al fisco. Ma non è il problema dell’Italia in questa fase. Lavorare meno ore significa far pagare un salario più alto alle imprese che se lo possono permettere perché hanno alti margini. Certo non a quelle che galleggiano».
L’Italia quindi non è pronta a ridurre le ore di lavoro?
«Giusto attrezzarsi, in prospettiva. Ma la scarsità di lavoro in Italia è legata piuttosto alla carenza di investimenti. Abbiamo povertà di lavoro perché non cresciamo. Non siamo ancora arrivati al punto in cui la quota di reddito da lavoro diminuisce a favore di quello da capitale. Piuttosto abbiamo oltre un milione di posti vacanti, la maggior parte nel welfare. Mancano medici, infermieri, professori. Li richiamiamo dall’estero o dalla pensione».
La ricetta per l’oggi è ancora quella keynesiana dunque?
«Il governo dovrebbe scommettere sui settori carenti: ambiente, riqualificazione urbana, infrastrutture, nuove energie, ricerca e sviluppo. Anziché lanciare mirabolanti flat tax, un regalo di soldi a chi non ne ha bisogno, sarebbe più proficuo usare le risorse pubbliche creando occupazione. Invece nell’ultima manovra, dopo la cura Bruxelles, i tagli si sono abbattuti proprio sugli investimenti pubblici, in modo drammatico. Si esce dalla crisi solo se puntiamo a una crescita con più occupazione, non con meno occupazione. Al contrario, distruggiamo il nostro patrimonio di welfare, fondamentale per l’equità, ma anche per la crescita. Quale futuro possiamo aspettarci se non formiamo le persone e non sosteniamo la loro salute?».
E la riduzione del cuneo fiscale, il costo del lavoro tra i più alti nei paesi Ocse, non è un’emergenza?
«Riqualificazione energetica, lotta contro il dissesto idrogeologico, potenziamento di ferrovie e strade: questi investimenti portano più lavoro di qualsiasi taglio del cuneo, come dimostrano i vari sgravi in forma di bonus introdotti negli ultimi anni. Alla fine si sono rivelati un fuoco di paglia, perché le imprese hanno solo anticipato assunzioni già previste».
Il governo punta invece moltissimo sulla flat tax.
«La tassa piatta mi fa paura per la sua fortissima iniquità e perché introduce un prelievo casuale. Dal 2020 un lavoratore autonomo, a parità di reddito, pagherà 8-9 mila euro meno di un dipendente. Se si supera la soglia di 50 mila euro anche di poco, la famiglia passa da una tassazione super agevolata a una normale. Aberrante. Proposte improvvisata che rischiano di sacrificare ancora il welfare, con altri tagli».