Guerra: la violenza sulle donne è favorita dalle discriminazioni economiche

Politica e Primo piano

Intervista a Repubblica

di Rosaria Amato

Ex viceministra al Lavoro con delega alle Pari Opportunità e attualmente sottosegretaria all’Economia, Maria Cecilia Guerra ha invitato Monica Guerritore e Alessio Boni per la “Giornata di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne” che si tiene il 26 novembre al Mef. Attraverso due monologhi, cercheranno di far capire cosa significa essere vittima di violenza, anzi, come spiega la sottosegretaria, cosa significa essere “rivittimizzata” dopo aver già subito violenze. “Il 63% delle donne non denuncia – dice Guerra – perché la violenza è principalmente legata a situazioni familiari o di relazioni sentimentali presenti o passate”.

“Le donne sono troppo spesso vittime due volte, – prosegue la sottosegretaria – in prima battuta di uomini violenti e in seconda di meccanismi di protezione che non funzionano come dovrebbero. Capita poi che chi denuncia la violenza domestica venga rimandata a casa, invitata a trovare una soluzione, una forma di accordo, una mediazione con il proprio carnefice”. Peggio ancora poi se ci sono figli: “Le madri che denunciano violenze entrano in un calvario di carte bollate in tribunale, rischiano di perdere i figli perché i compagni violenti non vengono considerati genitori inadeguati e loro tacciate di ostacolare la relazione. L’accusa è quella della cosiddetta “alienazione parentale” che è stata più volte sconfessata dalla Cassazione ma che nonostante questo continua a essere utilizzata nei tribunali con il risultato che i figli vengono strappati alle donne e collocati in casa famiglia o affidati ai padri violenti”.

Una sottocultura che va cambiata, anche attraverso il rafforzamento della posizione della donna nella famiglia. Una recente proposta di legge chiede di inserire le donne vittime di violenza nelle categorie protette per il diritto all’assunzione nelle quote riservate. Può andar bene, osserva Maria Cecilia Guerra, purché non si trasformino tutte le donne in una categoria protetta, “perché le donne sono la maggioranza numerica, e non sono una categoria debole”. Piuttosto “bisogna rovesciare l’idea che le donne manipolano, mentono, esagerano, che è colpa loro se non sanno reagire, e rimuovere i vincoli che impediscono loro di ribellarsi”. Che sono anche in buona parte vincoli economici: “Noi abbiamo provvedimenti che vanno in questa direzione, dall’accesso alle case pubbliche alla decontribuzione per il datore di lavoro, ma bisogna sradicare anche in campo economico tutte le discriminazioni che riducono l’autonomia delle donne e favoriscono gli elementi che preparano la violenza: il controllo della donna passa anche per le risorse di cui dispone. Io penso che il contesto socio-economico sia cruciale in termini di prevenzione”.

E quindi anche il fatto che il tasso di occupazione delle donne italiane sia uno dei più bassi in Europa le indebolisce, impedisce loro di reagire quando sono vittime di violenza?

“Il contesto della situazione economica è fondamentale. Un percorso nel mercato del lavoro come quello italiano, così svilito e così condizionato dalla maternità, favorisce la violenza. Una donna che fa figli ha una probabilità di mantenere un lavoro a tempo pieno qualificato molto più bassa rispetto a una donna che non fa figli, per non parlare rispetto agli uomini”.

La pandemia ha reso molto più diffuso e accessibile lo smart working. Si stanno costruendo protocolli, linee guida: potrebbe essere l’opportunità per rendere i tempi di lavoro più flessibili e adatti anche alle lavoratrici madri.

“È fondamentale anche un’attenzione ai tempi di lavoro, il cosiddetto diritto alla disconnessione: i Paesi nordici lo stanno affrontando di petto, noi meno. Io credo che lo smart working possa aiutare ad affrontare il tema della conciliazione vita privata-lavoro ma solo se il tema viene declinato anche al maschile, altrimenti il lavoro agile rischia di diventare una ulteriore formula di ghettizzazione, con la pretesa che le donne al tempo stesso lavorino e accudiscano anche i figli. Noi abbiamo visto infatti che durante il lockdown il peso maggiore del lavoro di cura è stato è stato sulle spalle delle donne, non si è distribuito, e questo è avvenuto in Italia sia quando entrambi i genitori erano in smart working e persino nel caso in cui solo il padre era in smart working e la madre continuava a lavorare in presenza! Io metterei una premialità per le imprese che utilizzano strumenti di conciliazione in modo equilibrato, coinvolgendo dipendenti maschi e femmine, questo potrebbe essere utile”.

Anche i congedi parentali speciali durante il lockdown erano stati pensati per favorire le famiglie e si sono ritorti contro le donne.

“La quasi totalità dei congedi parentali Covid sono stati presi dalle donne, ma questi bimbi hanno anche dei papà! Oppure i padri vengono fuori solo nei casi di separazione? Bisogna dare anche ai padri l’opportunità di svolgere la loro funzione: nei Paesi in cui è avvenuto i padri si dicono felici di essersi riappropriati del loro ruolo”.

Certo di leggi per favorire il lavoro delle donne ne sono state fatte tante, ma gli effetti non sempre sono stati significativi.

“Penso che abbiamo fatto bene a mettere le pari opportunità nelle leggi elettorali e le quote rosa nei consigli di amministrazione. E facciamo bene a mettere nel Pnrr regole di premialità negli appalti pubblici per le aziende che assumono quote significative di donne. Importante anche la legge sulla parità retributiva appena approvata dal Parlamento, che introduce elementi di trasparenza per individuare gli snodi delle discriminazioni. Ma non basta”.

Quali misure potrebbero essere veramente efficaci per rafforzare il ruolo delle donne e la loro autonomia economica?

“Bisognerebbe introdurre elementi di premialità per le aziende che non discriminano e di sanzione per i comportamenti scorretti, coinvolgendo anche l’Ispettorato del Lavoro. Dobbiamo rafforzare strumenti come il congedo obbligatorio per gli uomini, che adesso è diventato di 10 giorni contro i 5 mesi delle donne. Dobbiamo premiare la condivisione dei compiti di cura. La scommessa è quella di cominciare a introdurre criteri trasversali, come stiamo cercando di fare con il Pnrr: interpretare le politiche pubbliche attraverso la valutazione degli diversi effetti che hanno su uomini e donne. Comprese le pensioni: se continuiamo a pensare alle pensioni in modo neutro premiamo le carriere contributive lunghe, che sono quelle degli uomini, e non certo chi è dovuto stare a casa per accudire i figli. Le politiche pensionistiche non sono eque dal punto di vista del genere. E neanche quelle dei trasporti”.

A quali politiche si riferisce?

A quelle di trasporto pubblico, che considerano solo i tragitti da casa a scuola e da casa al posto di lavoro, ma le donne vanno anche a far la spesa, dal medico e abbiamo bisogno di costruire una rete di trasporti visto che sono le donne li usano di più, gli uomini vanno in macchina. Serve una rete dei trasporti pubblici che tenga conto di chi svolge i compiti di accudimento”.

Ma come si fa per evitare che poi le politiche a sostegno delle donne diventino politiche anti-donna? 

“Sin da piccoli uomini e donne vengono educati in modo diverso. E nelle scuole non riusciamo ancora a portare corsi di educazione civica equilibrata, ogni volta che ci si prova vengono fuori tabù e rimostranze di varie associazioni genitoriali che hanno paura che si parli di temi sensibili. Ci sono quattro-cinque leggi che impongono in tutti i programmi scolastici l’educazione alle relazioni tra uomo e donna, ma non vengono applicate. Come la legge 119 che dà la possibilità di raccogliere le testimonianze delle donne in forma protetta, ma i tribunali la ignorano”.